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L’Irlanda e i tre imperi. Il racconto dell’amb. Serpi

Di Paolo Serpi

Un governatore romano, i popoli nordici e infine l’America. Il futuro ci dirà se l’isola fragile saprà ancora giocare un ruolo di ponte, come in passato. Il racconto di Paolo Serpi, ambasciatore, inviato speciale e ora professore alla Lumsa di “Storia e analisi delle crisi internazionali”

Apparentemente la nostra verde Irlanda, al Nord dell’Europa, è geograficamente e politicamente “periferica”. Ma lo è veramente e lo è stata nel passato?

L’Irlanda di oggi è il confine nordatlantico dell’Unione europea e la Brexit ne ha fatto un “unicum” sotto vari aspetti. Vediamo quali sono i principali. In primo luogo, dal punto di vista linguistico, quasi 450 milioni di europei devono utilizzare la seconda lingua ufficiale di questo piccolo Paese di 5 milioni di abitanti, a Nord-Ovest della Gran Bretagna, ancora “titolare” di questa lingua a vocazione universale. Sul piano economico-finanziario, i grandi movimenti di capitali in provenienza dagli Stati Uniti e dal Regno Unito dopo la “Brexit” vengono in gran parte veicolati verso l’Unione europea proprio attraverso l’Irlanda, che ha recentemente iniziato ad attrarre anche l’attenzione delle grandi economie asiatiche.  Sempre in campo economico, come non ricordare che la Ryan Air è la terza compagnia aerea al mondo? La cultura è poi un altro punto forte della nostra Irlanda. Basti solo pensare che sono irlandesi quattro premi Nobel per la letteratura (senza contare Oscar Wilde e James Joyce).

Sul piano politico, sociale e militare l’Irlanda non conta molto in Europa. Ma è sempre stato così? Proviamo a fare un passo indietro nel tempo.

Non molti ricordano che l’Irlanda, “Hibernia” per gli antichi romani, era al di là del “limes”, confine nord-occidentale costituito allora dalle coste atlantiche dell’Inghilterra e della Scozia. Tacito racconta che, intorno all’80 d.C., il governatore romano Agricola aveva seriamente pensato di occupare con una sola legione l’isola d’Irlanda, desistendo poi dalla conquista, sostanzialmente, per tre ordini di motivi.  Si facevano già eccellenti commerci con l’isola, le autorità locali erano troppo “disperse” e il controllo del nord della Britannia era fin troppo problematico per le legioni romane.  Questa situazione di fatto, la sua “perifericità”, ha messo al riparo la vecchia Hibernia dalla catastrofe che avrebbe colpito la Britannia appena quattro secoli dopo, insieme al resto dell’Impero Romano d’occidente.

Intanto, gli Irlandesi di allora, arricchitisi nel tempo per la vicinanza e i commerci con i Romani, hanno avuto un dono veramente prezioso dal periodo del tardo Impero. Si tratta della loro futura e sentita religione nazionale, il cattolicesimo, personificata da Patrizio, un bravo monaco-pellegrino inglese, trasformato in Santo patrono della Nazione.

Va notato, che nei quasi 5 secoli di dominio romano, i Britanni vennero irreggimentati in forma “imperiale” come e più delle province del nord Europa. Questo a differenza degli antichi Irlandesi, che videro invece crescere, anche grazie al monachesimo, una forma molto avanzata di localismo e particolarismo, estremamente utile in questa fase storica sotto due punti di vista.   Il controllo condiviso e pacifico del territorio, insieme ad un radicamento della fede religiosa, all’origine di un monachesimo vivo e fecondo, che si è indirizzato verso l’Europa continentale, subito dopo il crollo dell’Impero Romano, fra il V e il VII secolo d.C.

In questo periodo, l’azione dei monaci missionari Irlandesi è stata incredibilmente efficace in Europa continentale al nord, al centro e fino all’Italia, dove i vari San Brandano, Colombano, Canizio e tanti altri, fondarono monasteri e città, in una spinta europeista e nel nome di una rinnovata fede cattolica. È stata, se vogliamo, una specie di Brexit “a contrario” e “ante litteram”.

Mentre i santi monaci Irlandesi sono impegnati a catechizzare e rilanciare l’Europa, nella vecchia Hibernia arriva nel VII secolo D.C. la prima drammatica ondata degli invasori Vichinghi, seguita nei secoli successivi dai Normanni e dagli Angli, che stroncano definitivamente il localismo monastico, sviluppatosi nei secoli dell’indipendenza nell’isola di smeraldo.

Occorre aggiungere che, alla base del localismo monastico, vi era stata da sempre quella incapacità di trovare nell’isola dei monarchi o dei federatori politici, che l’Irlanda ha trovato “manu militari” con i vicini Inglesi, a partire dall’undicesimo secolo e fino all’indipendenza, dopo la Prima guerra mondiale.

Abbiamo fatto un salto storico di un millennio, passando dai monaci Irlandesi in cerca di Europa, e dalla libera Irlanda delle tante signorie locali, a quella intristita da secoli di assoggettamento ai Britannici “imperializzati e romanizzati”. Ci collochiamo ora alla metà dell’ottocento, all’apice della storia dell’Impero Britannico, con la “Great Famine”, l’episodio forse più triste e drammatico nella storia d’Irlanda.

Fra il 1845 e il 1849, oltre un terzo della popolazione irlandese muore di fame e di stenti per una carestia, di fatto non contrastata dal governo di Londra, che negli anni precedenti ha visto con una certa preoccupazione crescere la poco “docile” popolazione irlandese. In questa fase storica, in piena epoca Vittoriana, gli Irlandesi sono circa un terzo della popolazione europea dell’Impero Britannico, che si distingue per una marcata conflittualità e scarsa assimilazione rispetto al resto della Gran Bretagna. Nell’ottica del governo imperiale di Londra è opportuno disperdere in qualche modo gli abitanti dell’isola di smeraldo, utilizzandoli come coloni e popolatori oltre Atlantico.

Si accentua così un fenomeno massiccio di emigrazione degli Irlandesi, fra i maggiori “colonizzatori” del nuovo impero, che si va delineando al di là dell’oceano. Per gli Stati Uniti d’America il loro ruolo è tuttavia unico e diventa di tipo strutturale e “politico” fra l’Ottocento ed il Novecento.

Gli emigranti irlandesi vengono maltrattati al pari degli altri gruppi etnici al loro arrivo negli Stati Uniti, ma sono considerati comunque “nordeuropei” e, in quanto tali, vengono rapidamente integrati, prima nei ranghi medio-bassi dell’amministrazione civile e militare, per poi entrare rapidamente e a pieno titolo al più alto livello nella vita politica del nuovo Impero.  A descrivere questo impressionante fenomeno di integrazione sociopolitica, basti rilevare che 23 su 46 presidenti americani sono di discendenza irlandese. Dal settimo, Andrew Jackson, all’attuale, Joe Biden.

Ma proviamo a riassumere i due millenni di Storia che abbiamo sorvolato, tornando al titolo che abbiamo scelto. Perché “Irlanda e i tre imperi”?

Il primo è certamente quello di un governatore romano, che ha deciso di porla al di là del “limes” e di non integrarla, rispettandone l’indipendenza. Questo ha poi salvato l’Irlanda dalla decadenza “imperiale” e per trecento anni l’ha proiettata in una nuova dimensione localistica, religiosa, ma fondamentalmente aperta all’Europa, con i suoi monaci pellegrini e urbanizzatori. Sopraffatta dai popoli nordici razziatori è poi, a forza, diventata parte di un secondo Impero, quello degli anglo-britannici, senza però esserne mai veramente coinvolta e integrata. Sono, in definitiva, gli Stati Uniti d’America l’approdo finale degli irlandesi, che negli ultimi due secoli contribuiscono, in maniera determinante, a trasformarlo in un nuovo e terzo Impero d’Occidente.

Il futuro ci dirà se la fragile “Isola di Smeraldo” saprà ancora giocare un ruolo chiave, di ponte, come per il passato, ispirando una nuova “Brexit” che riporti fra noi europei “continentali” un vecchio Impero, quello dei Britanni.

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