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L’Occidente è in crisi? Evidenze e cure

Di Achille Paliotta

Di cosa si è parlato nel convegno “Il suicidio dell’Occidente”, svoltosi il 31 gennaio a Roma, nella Sala Capitolare della Biblioteca del Senato. Il racconto Achille Paliotta

Che tipo di identità ha oggi l’Occidente? Quali principi difende? E quali strade sembra voler percorrere? Di questo e di altro si è parlato nel convegno “Il suicidio dell’Occidente”, svoltosi il 31 gennaio a Roma, nella Sala Capitolare della Biblioteca del Senato. I relatori sono stati il card. Angelo Bagnasco, Marcello Pera, Alfredo Mantovano, Marco Invernizzi (Responsabile nazionale di Alleanza Cattolica) e Domenico Airoma (Vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino), moderati da Francesco Pappalardo (Responsabile della Biblioteca del Senato).

Il fenomeno della “contrazione” volontaria dell’Occidente, vale a dire una rinuncia a difendere i suoi valori, i suoi interessi, il suo ruolo nel mondo è stato descritto magistralmente da James Burnham [1905-1987] nel suo libro “Suicide of the West. An Essay on the Meaning and Destiny of Liberalism”, pubblicato nel 1964. Burnham mostrava, nel primo capitolo di quel testo seminale, come le mappe geografiche del mondo fossero cambiate in maniera radicale nel corso dei secoli, testimoniando così dapprima l’espansione e poi la successiva contrazione dell’Occidente.

Dal XV secolo al XX secolo, difatti, le potenze europee avevano esteso la loro influenza su tutti i continenti, portando con sé la loro cultura, la loro scienza, la loro tecnologia, la loro religione. Ma poi, a partire dalla Prima guerra mondiale, si era verificato un fenomeno inverso: le colonie avevano ottenuto l’indipendenza e i regimi comunisti avevano occupato vaste porzioni di territori, cosicché l’Occidente aveva perso il controllo di importanti regioni strategiche.

Questa contrazione così vistosa non era stata, tuttavia, il risultato di una sconfitta militare o di una scarsità di risorse. Secondo Burnham era il risultato di una ben precisa scelta politica e morale, di una perdita di fiducia in sé stessi, di una profonda crisi di identità. L’Occidente aveva smesso di credere nei suoi principi, nei suoi ideali, nella sua missione. Aveva smesso di difendere la libertà, la democrazia, il capitalismo, il cristianesimo. Aveva smesso di essere orgoglioso della sua storia, della sua arte, della sua letteratura. Aveva smesso di essere il faro del mondo, il modello da seguire, il leader politico da rispettare.

Nondimeno, Burnham non si arrese alla disperazione. Il suo libro era un monito, un appello, una provocazione. Voleva scuotere le coscienze, risvegliare gli spiriti, rianimare le energie. Voleva che l’Occidente reagisse, che si riprendesse, che si riscattasse. E in parte vi riuscì. Negli anni Ottanta, grazie alla leadership di Ronald Wilson Reagan [1911-2004] e di altri leader, l’Occidente riuscì a invertire la rotta, a sfidare il comunismo, a vincere la Guerra fredda, a rilanciare la crescita economica, a rinnovare la fiducia civile. A distanza di sessant’anni, tuttavia, bisogna ammettere che quella vittoria non è stata definitiva, che quella rinascita non è stata duratura, che quella sfida non è stata superata. Oggigiorno, l’Occidente è di nuovo in crisi, di nuovo in pericolo, in preda a forti spinte suicidarie o almeno di una buona parte di esso.

Le evidenze empiriche sono numerose. A livello sociale, i tassi di fertilità sono ben al di sotto dell’accettabile. A livello geopolitico, le guerre in Medio Oriente e addirittura nel centro dell’Europa, a seguito dell’invasione della Federazione Russa all’Ucraina, sembrano susseguirsi senza fine. Per non parlare della situazione dell’Indo-Pacifico la quale fa presagire diffuse preoccupazioni, anche a seguito delle elezioni appena svoltesi nell’isola indipendentista di Taiwan. A livello economico, la ricchezza tende sempre più a concentrarsi nelle mani di poche corporation tecnologiche.

I lavoratori sono progressivamente a rischio di perdere il loro posto di ceto medio nella società e l’ascensore sociale è oramai sostanzialmente bloccato. Tutto ciò ha inevitabili effetti a livello politico, in quanto i partiti tradizionali tendono a sfaldarsi lasciando spazio a movimenti populisti (di destra e di sinistra), nazionalisti, socialisti. A livello religioso, le chiese si svuotano e il sacro perde inevitabilmente il suo ruolo nell’arena pubblica. A livello culturale, la società si frammenta, si incattivisce, si immalinconisce (Censis dixit) pur specchiandosi nei social media, anche a seguito dell’attacco virulento portato dagli attivisti del wokismo e della cancel culture. A livello tecnologico, si diffondono le paure e i timori apportati dall’intelligenza artificiale e da un paradigma di ricerca fondato sullo scientismo fine a sé stesso e non più sulla primazia della persona umana.

Come è stato benissimo messo in luce dai relatori intervenuti nel corso del convegno, nondimeno, questi problemi non sono necessariamente insormontabili. Non sono inevitabili. In quest’ottica, Mantovano ha sottolineato, trattando del caso di Indi Gregory e dell’operato dei loro genitori che «quello che hanno fatto per la loro ultima figlia è stato non rassegnarsi a una decisione di morte di cui all’evidenza non coglievano alcuna ragione. […] Si sono scontrati col ceto sanitario e con i giudici i quali […] hanno respinto le loro istanze. [..] La resistenza dei genitori di Indi, e l’iniziativa della presidente Meloni e del Consiglio dei ministri non hanno salvato la vita della piccola: Indi, privata anche del respiratore, è morta la notte del 13 novembre 2023. Ma resistenza e iniziativa non sono state vane».

Da questo caso Mantovano ne fa derivare delle linee di azione per gli attuali conservatori, vale a dire che “la battaglia è anzitutto culturale e pre-politica, e quindi deve muoversi sul terreno dell’elaborazione scientifica, filosofica e giuridica: senza farsi intimorire dalla desertificazione intervenuta soprattutto negli ultimi anni, ma considerando questo deserto parte della sfida da raccogliere”. Il cardinale emerito di Genova, Bagnasco, ha messo in risalto, trattando della malattia dell’Europa, come la sua essenza risieda nella cura della sua anima intesa come “il desiderio e la ricerca costante della verità. Quale verità? Le grandi verità che stanno oltre le cose quotidiane e che riguardano l’esistenza umana, che danno senso alla vita personale […] che possiedono un sapere sulla totalità del mondo e della vita”.

Pera ha evidenziato il nesso della tenuta del cristianesimo con quello della tenuta sociale delle società attuali, citando una frase di Benedetto XIV “nella Chiesa di oggi, quanto più essa si concepisce soprattutto come istituzione per promuovere il progresso sociale, quanto più fa questo, tanto più inaridiscono in essa le vocazioni al servizio del prossimo”. Per il reggente nazionale di Alleanza Cattolica, Invernizzi “una civiltà così importante e bella, proprio perché fondata sulla libertà della persona, può sempre rinascere quando le persone decideranno di usare la loro libertà per servire la verità e il bene”. Sulla stessa linea anche Airoma, il quale trae motivi di speranza in quella “visione dell’uomo che è all’origine dell’Occidente e che ha prodotto grandi civiltà, compatibilmente con la strutturale imperfezione umana, [che] non può morire, perché affonda le sue radici nella verità sull’uomo”.

In conclusione, per Mantovano “la sfida da raccogliere è quella di non demordere nonostante l’irrilevanza di quel che rimane del popolo cattolico italiano, e comunque di un popolo antropologicamente ben orientato; nonostante la difficoltà che esso ha di trovare guide al suo interno; nonostante il drastico abbassamento del suo profilo”.



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