Se non possiamo cambiare il passato, possiamo contribuire a costruire un presente e un futuro migliori. All’Europa, e al suo modello di democrazia e di sviluppo avanzati, guardano nel mondo milioni di persone. L’unità dei suoi popoli è la sua forza e la sua ricchezza. Pubblichiamo il discorso del Presidente della Repubblica in occasione del Giorno del Ricordo
Sono passati quasi ottant’anni dai terribili avvenimenti che investirono le zone del confine orientale e venti anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, deliberata dal Parlamento a larghissima maggioranza. Giorno dedicato alla tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra.
Lungo tempo è trascorso da quegli eventi ma essi sono emotivamente a noi vicini: questo consente – in una vicenda storica complessa e ancora soggetta a ricerche, dibattiti storiografici e politici – di stabilire dei punti fermi e di delineare alcune prospettive.
In quelle martoriate ma vivacissime terre di confine, che da secoli ospitavano popoli, lingue, culture, alternando fecondi periodi di convivenza a momenti di contrasto e di scontri, il secolo scorso ha riservato la tragica e peculiare sorte di vedere affiancati, a pochi chilometri di distanza – in una lugubre geografia dell’orrore – due simboli della catastrofe dei totalitarismi, del razzismo e del fanatismo ideologico e nazionalista: la Risiera di San Sabba, campo di concentramento e di sterminio nazista, e la Foiba di Basovizza, uno dei luoghi dove si esercitò la ferocia titina contro la comunità italiana.
Quel territorio, intriso di storie e di civiltà, condivise lo stesso tragico destino di molti Paesi dell’Europa centro-orientale, che – dopo la sconfitta del nazifascismo – si videro negate le aspirazioni alla libertà, alla democrazia e all’autodeterminazione a causa dell’instaurazione della dittatura comunista, imposta dall’Unione Sovietica. Milioni di persone, in quei Paesi, si videro allora espulse dalla terra che avevano abitato, costrette a mettersi in cammino alla ricerca di una nuova patria.
Un muro di silenzio e di oblio – un misto di imbarazzo, di opportunismo politico e talvolta di grave superficialità – si formò intorno alle terribili sofferenze di migliaia di italiani, massacrati nelle foibe o inghiottiti nei campi di concentramento, sospinti in massa ad abbandonare le loro case, i loro averi, i loro ricordi, le loro speranze, le terre dove avevano vissuto, di fronte alla minaccia dell’imprigionamento se non dell’eliminazione fisica.
Il nostro Paese, per responsabilità del fascismo, aveva contribuito a scatenare una guerra mondiale devastante e fratricida; e fu grazie anche al contributo dei civili e dei militari alla lotta di Liberazione e all’autorevolezza della nuova dirigenza democratica, che all’Italia fu risparmiata la sorte dell’alleato tedesco, il cui territorio e la cui popolazione vennero drammaticamente divisi in due. Questo, tuttavia, non evitò che le istanze legittime di tutela della popolazione italiana residente nelle zone del confine orientale fossero osteggiate, frustrate e negate.
Il nostro “muro di Berlino” – certamente ben minore per dimensioni ma con grande intensità delle sofferenze provocate – passava per il confine orientale, per la cortina di ferro che separava in due Gorizia, allontanando e smembrando territori, famiglie, affetti, consuetudini, appartenenze.
Il nuovo assetto internazionale, venutosi a creare con la divisione in blocchi ideologici contrapposti, secondo la logica di Yalta, fece sì che passassero in secondo piano le sofferenze degli italiani d’Istria, di Dalmazia e di Fiume. Furono loro a pagare il prezzo più alto delle conseguenze seguite alla guerra sciaguratamente scatenata con le condizioni del Trattato di pace che ne derivò.
Dopo aver patito le violenze subite all’arrivo del regime di Tito, quei nostri concittadini, dopo aver abbandonato tutto, provarono sulla propria sorte la triste condizione di sentirsi esuli nella propria Patria. Fatti oggetto della diffidenza, se non dell’ostilità, di parte dei connazionali.
Le loro sofferenze non furono, per un lungo periodo, riconosciute. Un inaccettabile stravolgimento della verità che spingeva a trasformare tutte le vittime di quelle stragi e i profughi dell’esodo forzato, in colpevoli – accusati indistintamente di complicità e connivenze con la dittatura – e a rimuovere, fin quasi a espellerla, la drammatica vicenda di quegli italiani dal tessuto e dalla storia nazionale.
La ferocia che si scatenò contro gli italiani in quelle zone non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di vendetta o sommaria giustizia contro i fascisti occupanti; il cui dominio era stato – sappiamo – intollerante e crudele per le popolazioni slave, le cui istanze autonomistiche e di tutela linguistica e culturale erano state per lunghi anni negate e represse.
Le sparizioni nelle foibe o dopo l’internamento nei campi di prigionia, le uccisioni, le torture commesse contro gli italiani in quelle zone, infatti, colpirono funzionari e militari, sacerdoti, intellettuali, impiegati e semplici cittadini che non avevano nulla da spartire con la dittatura di Mussolini. E persino partigiani e antifascisti, la cui unica colpa era quella di essere italiani, di battersi o anche soltanto di aspirare a un futuro di democrazia e di libertà per loro e i loro figli, di ostacolare l’annessione di quei territori sotto la dittatura comunista.
Le foibe e l’esodo hanno rappresentato un trauma doloroso per la nascente Repubblica che si trovava ad affrontare l’eredità gravosa di un Paese uscito sconfitto dalla guerra. Quelle vicende costituiscono una tragedia, che non può essere dimenticata. Non si cancellano pagine di storia, tragiche e duramente sofferte. I tentativi di oblio, di negazione o di minimizzare sono un affronto alle vittime e alle loro famiglie e un danno inestimabile per la coscienza collettiva di un popolo e di una nazione.
L’istituzione del giorno del Ricordo – con tante iniziative da essa scaturite, con ricerche, libri, dibattiti – ha avuto il merito di riconnettere la memoria collettiva a quel periodo e a quelle sofferenze, dopo anni di rimozione. Ha reso verità a tante vittime innocenti e al dolore dei loro familiari. Tutto questo è stato importante, doveroso, pur se in ritardo, giusto. Ma non è sufficiente.
Il ricordo, la memoria della persecuzione e delle tragedie, deve essere fecondo, deve produrre anticorpi, deve portarci, come hanno sottolineato, con semplicità ed efficacia straordinaria, Lada e Alessandra Rivaroli, e anche la Signora Haffner, a fare in modo che simili lacerazioni crudeli nei confronti della libertà, del rispetto dei diritti umani, della convivenza appartengano a un passato irripetibile.
Malgrado queste tragiche esperienze del passato, assistiamo con angoscia anche oggi, non lontano da noi, al risorgere di conflitti sanguinosi, in nome dell’odio, del nazionalismo esasperato, del razzismo. Dall’Ucraina al Medio Oriente ad altre zone del mondo, la convivenza, la tolleranza, la pace, il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale sono messi a dura prova. I soprusi e le violazioni si moltiplicano e chiamano quanti condividono i valori di libertà e di convivenza a una nuova azione di contrasto, morale e politica, contro chi minaccia la libertà, il corretto ordine internazionale e le conquiste democratiche e sociali.
Pagine buie della storia, anche d’Europa, sembrano volersi riproporre. Disponiamo di un forte antidoto e dobbiamo consolidarlo e svilupparlo sempre di più.
La costruzione dell’Unione europea, pur con i suoi ritardi e le sue carenze, ha rappresentato – come ha fatto ben presente il Professor Rossi – il ripudio della barbarie provocata da tutti i totalitarismi del Novecento e la concreta e valida direzione di marcia per guardare al futuro con fiducia e con speranza.
In questo quadro nelle splendide terre di cui parliamo, oggi, grazie alla comune appartenenza all’Unione Europea, non vi sono più barriere o frontiere, ma strade e ponti. La diversità non genera più risentimento o sospetto, ma produce amicizia e progresso. Con Slovenia e Croazia coltiviamo e condividiamo, in Europa e nel mondo, i valori della democrazia, della libertà, dei diritti. E lavoriamo insieme per la pace, per lo sviluppo, per la prosperità dei nostri popoli, amici e fratelli.
I giovani lo sanno e lo vivono. Le giovani generazioni lo stanno già facendo da molto tempo, sviluppando un comune senso di appartenenza a una regione che trova nell’ampio spettro di presenze, etnie, storie, culture, tradizioni, la sua preziosa e feconda peculiarità. Gorizia, la città simbolo della divisione, è oggi associata – grazie a una generosa intuizione della Slovenia – a Nova Gorica: due città, due Stati, una sola capitale della cultura europea per il 2025.
Occorre adesso lavorare alacremente, a livello europeo, perché – come il ministro Tajani ha poc’anzi ricordato – anche gli altri Paesi dei Balcani Occidentali candidati all’ingresso nell’Unione possano compiere le procedure di adesione senza ritardi e senza indugi. Si tratta anche di una risposta concreta ai pericoli del possibile riaccendersi, nella regione, di sopiti conflitti di natura etnica o religiosa, che rischierebbero di riportare la storia, a tempi che non vogliamo più rivivere.
Le divisioni, i conflitti, i drammi del passato – la cui memoria ci ferisce tuttora con forza e sofferenza – ci ammoniscono.
Onorare le vittime e promuovere la pace, il progresso, la collaborazione, l’integrazione, aiuta a impedire il ripetersi di tragici errori, causati da disumane ideologie e da esasperati nazionalismi; e a non rimanere prigionieri di inimicizie, di rancori, di dannose pretese di rivalsa. Se non possiamo cambiare il passato, possiamo contribuire a costruire un presente e un futuro migliori.
All’Europa, e al suo modello di democrazia e di sviluppo avanzati, guardano nel mondo milioni di persone. L’unità dei suoi popoli è la sua forza e la sua ricchezza. Il buon senso e l’insegnamento della storia chiedono di non disperderla ma, al contrario, di potenziarla, nell’interesse delle nazioni europee e del futuro dei nostri giovani.