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Perché la silver economy conta. Tutti i numeri analizzati da Becchetti

Le società del futuro dovranno avere come due pilastri di welfare quelli del contrasto alla povertà, orientato al reinserimento nel mondo del lavoro, e del sostegno alla non autosufficienza degli anziani. Un motivo in più per varare politiche redistributive serie nei prossimi anni. Il commento di Leonardo Becchetti

La dinamica demografica del Paese nei prossimi anni aumenterà sempre più l’importanza di quella che chiamiamo silver economy, ovvero l’economia che si occupa di comportamenti, consumi e cura di chi è avanti nell’età (over 65). Per capire le dimensioni del fenomeno la quota di spesa pubblica per il capitolo vecchiaia vale circa il 27% del totale e che la domanda di assistenza e di cura attraverso la spesa privata dà occupazione a circa 1,6 milioni di persone. La spesa in consumi degli over 65 è inoltre pari a circa un quinto dei consumi complessivi (circa 200 miliardi).

Per comprendere la dinamica della silver economy nei prossimi anni dobbiamo guardare alla variazione dell’aspettativa di vita che, grazie ai progressi della scienza medica, è aumentata di circa quattro mesi all’anno negli anni pre-Covid per poi calare durante i due anni a cavallo della pandemia. Nell’ultimo anno abbiamo assistito ad una piccola ripresa ma solo sul fronte maschile. I dati del nostro Paese sono ad ogni modo lusinghieri. Siamo tra i Paesi più longevi con 80.5 anni per gli uomini e 84.5 per le donne.

Una questione centrale però è che la vita over 65 si divide in due periodi marcatamente differenti: gli anni in buona salute nei quali gli anziani sono grandi consumatori di beni tradizionali, viaggi e cultura e gli anni non in buona salute dove gran parte della spesa finisce nei servizi di cura, a domicilio o all’interno di residenze sanitarie assistite (Rsa). Un altro dato che colpisce è che il livello d’istruzione ha un impatto molto significativo determinando un’estensione da 5 a 10 anni dell’aspettativa di vita in buona salute degli over 65.

Ed è del tutto evidente in questo contesto quanto siano importanti le politiche per l’invecchiamento attivo che, attraverso lo stimolo ad attività generative e la qualità della vita relazionale, possono ritardare l’ingresso negli anni di vita non in buona salute. Altrettanto evidente che, anche per questo motivo e non solo per ragioni di tenuta dei conti pubblici, l’età pensionabile è correttamente indicizzata in Italia agli aumenti dell’aspettativa di vita. Se nei prossimi anni post pandemia il trend pre-pandemia di aumento dei mesi di vita proseguirà l’età pensionabile di base potrebbe salire progressivamente dai 67 ai 70 anni. Intanto possiamo goderci il fatto di avere oggi in Italia oltre 2mila ultracentenari. Questo numero è destinato ad aumentare significativamente nei prossimi dieci anni fino ad arrivare a diverse decine di migliaia di persone.

L’altra enorme sfida che resta sullo sfondo è quella della sostenibilità economica dell’invecchiamento. Con i costi per i familiari della cura e dell’assistenza negli anni non in buona salute che può facilmente arrivare a 2-3mila euro mensili. Da questo punto di vista un passo fondamentale in avanti è stato il varo della legge sulla non autosufficienza che riconosce l’importanza del problema pur non allocando per ora risorse. Le società del futuro dovranno avere come due pilastri di welfare quelli del contrasto alla povertà (orientato al reinserimento nel mondo del lavoro) e del sostegno alla non autosufficienza degli anziani. Un motivo in più per varare politiche redistributive serie nei prossimi anni.


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