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Quasi amici. Cosa insegna il rapporto tra governo Meloni e Unione europea

Di Matteo Bonomi e Federico Castiglioni

Contrariamente agli auspici, il governo Meloni si è dimostrato un partner capace di dialogare con l’Europa. Ma dalla questione delle migrazioni alla governance economica, permangono le linee di faglia. L’analisi di Matteo Bonomi e Federico Castiglioni apparsa nel Rapporto sulla politica Estera Italiana 2023 dell’Istituto Affari Internazionali

Sembra lontano il tempo in cui la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen paventava un intervento di Bruxelles in caso di deterioramento democratico in Italia, paragonando un futuro governo di centrodestra all’Ungheria di Orbán. In realtà nel 2023 i rapporti tra il governo Meloni e la Commissione sono sembrati nel complesso costruttivi.

Un primo esempio di questo allineamento è dato dalla positiva interlocuzione tra la Commissione e il ministro per gli Affari europei per la revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che ha portato all’erogazione della quarta rata degli stanziamenti messi a disposizione dell’Italia dal programma di ripresa Next Generation EU. […] Un secondo esempio di convergenza tra Roma e Bruxelles, ma anche di continuità con il governo Draghi, riguarda il sostegno dell’Italia a Kyiv e alla politica Ue di allargamento, rivitalizzata dall’invasione russa dell’Ucraina dopo anni di stagnazione. […] Infine, un terzo ambito di positiva interlocuzione tra Roma e Bruxelles ha riguardato il già citato dossier delle migrazioni: il governo italiano ha infatti contribuito alla chiusura del Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, il cui negoziato andava avanti dal 2020 e che adesso attende solo la ratifica da parte del Parlamento europeo. Dal canto suo la Commissione europea ha fortemente sostenuto la strategia di esternalizzazione della gestione della migrazione sostenuta dall’Italia: in questo senso, si segnalano la visita congiunta di Meloni e von der Leyen in Tunisia del luglio 2023, che ha portato alla firma del memorandum d’intesa Ue-Tunisia, e il sostanziale benestare agli accordi sottoscritti dall’Italia con l’Albania lo scorso novembre.

Nonostante questi segnali distensivi, l’intesa pragmatica e transazionale su specifici dossier perseguita dal governo Meloni si inserisce in un contesto segnato da processi di riforma strutturale della governance Ue che non sembrano essere pienamente allineati alle esigenze italiane. Uno di questi ambiti è proprio quello legato alla politica migratoria. Da una parte il Nuovo patto, rafforzando i controlli e relativi obblighi degli Stati di prima accoglienza, rischia infatti di penalizzare l’Italia e i Paesi di primo approdo. Dall’altro lato l’enfasi sull’esternalizzazione della gestione dei flussi, perseguita dall’Unione in questi anni e confermata dal Patto, non solo continua a sollevare perplessità sotto il profilo del diritto interno e internazionale, ma raramente ha prodotto gli effetti sperati di limitare gli arrivi e facilitare i rimpatri. Anche se tracciare un bilancio appare prematuro, lo stesso accordo tra Commissione e Tunisia mostra già alcuni limiti, mentre l’accordo con Tirana ha suscitato le riserve della Corte costituzionale albanese e forti opposizioni nelle opinioni pubbliche dei Paesi dei Balcani occidentali, anche oltre l’Albania.

Le difficoltà italiane nell’ambito dei processi di riforma Ue sono apparse però evidenti soprattutto rispetto alla complessa partita legata alla revisione della governance economica, dove le ambizioni del governo Meloni escono fortemente ridimensionate da una fine dell’anno difficile. A poco è servito il veto, prima minacciato e poi attuato dall’Italia, alla ratifica del nuovo trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) – un atteggiamento con cui Roma ha piuttosto dato prova di inaffidabilità e incoerenza. Il governo è rimasto dapprima prigioniero di un’improbabile logica del “pacchetto” secondo la quale la ratifica del Mes era stata associata all’esplicita richiesta di maggiore flessibilità sulle regole fiscali. Poi le stesse forze di maggioranza (ma anche parte dell’opposizione, come il M5S) hanno contraddetto questa logica bocciando la ratifica del Mes in Parlamento indipendentemente dagli esiti del negoziato sulle nuove regole di bilancio a Bruxelles. Di fatto, la posizione dell’Italia è rimasta vittima di una spirale politica interna legata alla competizione tra i vari partiti politici di maggioranza e parte dell’opposizione, poco legata a un negoziato europeo o a una seria discussione nel merito delle implicazioni per il Paese dell’adozione di un Mes riformato.

Allo stesso tempo questo dibattito politico sulla ratifica del Mes ha distolto l’attenzione pubblica dalla partita principale che si è giocata a Bruxelles, proprio a proposito della riforma delle regole del Patto di stabilità e crescita, approvata al Consiglio Ecofin del 20 dicembre e che dovrà essere ora votata dal Parlamento europeo. La sospensione delle rigide regole di bilancio del Patto concessa per fronteggiare le conseguenze della pandemia sarebbe venuta meno nel 2024, rendendo imperativo per i Paesi ad alto debito e disavanzo pubblico, come l’Italia, il raggiungimento di un nuovo accordo sulla revisione del Patto in senso più accomodante. Roma ha tuttavia giocato un ruolo defilato nel negoziato, condotto prevalentemente tra Parigi e Berlino. Il compromesso approvato dai 27 ministri dell’Economia ha rivisto in senso più restrittivo, sotto forti pressioni tedesche, la proposta di riforma della Commissione europea, che richiedeva una semplificazione delle regole europee di bilancio, trattamenti differenziati a seconda delle condizioni economiche di partenza dei Paesi e un rafforzamento del “braccio correttivo” del Patto (procedure di infrazione per i disavanzi eccessivi). Come contropartita è stata offerta una maggiore flessibilità nell’applicazione delle nuove regole nei primi tre anni dalla loro entrata in vigore. Tali deroghe, tuttavia, difficilmente riusciranno a evitare l’apertura di una procedura di infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia nel 2024, in assenza di un impegno concreto da parte del governo per la correzione del disavanzo pubblico e la riduzione del debito.

Altra questione ancora irrisolta è quella della revisione intermedia del bilancio 2021-27 dell’Ue, rimandata a febbraio 2024 a causa del veto del governo ungherese. Anche in questo ambito le posizioni di Roma rimangono distanti da quelle della Germania e dei Paesi frugali, con la richiesta che l’Ue stanzi più risorse per la migrazione, per l’innovazione industriale e per finanziare il Piano di crescita per i Balcani occidentali, oltre che – in questo caso in linea con le aspettative di Berlino – per sostenere l’Ucraina. Più in generale, resta irrisolta la definizione di una tabella di marcia per i lavori di riforma istituzionale e di bilancio dell’Ue in vista di futuri allargamenti. In un quadro istituzionale europeo che rimane frammentato e legato alle rispettive posizioni nazionali, l’Italia – anche in ragione dell’approccio esclusivamente pragmatico del governo – e i Paesi dell’Europa meridionale rischiano di rimanere isolati nel tentativo di avanzare le proprie istanze, non da ultimo quelle derivanti dalla difficile gestione dei rapporti con la regione del Mediterraneo.

In vista delle elezioni europee del giugno 2024, il governo Meloni potrebbe dover far fronte a tensioni sia legate alla competizione interna alla coalizione che lo sostiene, sia connesse al complesso gioco delle alleanze a livello Ue. Rimangono da valutare gli esiti e le possibili ricadute del tentativo, esplicitato dalla premier anche nella conferenza stampa di fine anno, di creare una coalizione alternativa alla “maggioranza Ursula” attraverso un’alleanza con i popolari europei – anche se Meloni non ha escluso la possibilità di un sostegno italiano alla rielezione di Ursula von der Leyen (se sarà candidata) pure nell’ipotesi che si confermi su quella candidatura una maggioranza simile a quella che l’aveva eletta nel 2019.

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