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Petrolio, le sanzioni Usa rallentano le esportazioni russe. E sul gas…

Una parte delle navi petroliere che il Cremlino utilizza per trasportare il suo greggio hanno cessato le operazioni da quando Washington ha stretto le maglie delle sue sanzioni. Intanto l’Austria si scopre completamente dipendente dal gas russo, ma prende sostanza il corridoio Nord Africa-Germania (via Italia)

Tanto della capacità russa nel continuare la guerra d’aggressione contro l’Ucraina va ricondotta alle esportazioni di idrocarburi, la voce di bilancio più importante per il Cremlino. Quello era l’obiettivo del tetto al prezzo del petrolio imposto dal G7 tra dicembre 2022 e febbraio 2023, che ha funzionato fino a un certo punto: da luglio l’indice Urals viaggia sopra il limite teorico di sessanta dollari. Stando agli ultimi dati, però, sta diventando sempre più difficile per la Russia evadere il sistema, perché i canali alternativi si fanno sempre meno percorribili.

Nell’ultimo anno la Russia si è avvalsa della sua “flotta ombra”, circa un centinaio di vecchie petroliere che pur non soddisfando le necessità di esportazione le hanno permesso di spostare il greggio via mare, favorendo il trasbordo per occultarne la provenienza e, a tratti, aiutando le compagnie russe a commerciare il petrolio a prezzi superiori al price cap. Intanto ha continuato ad appoggiarsi a servizi terzi, talvolta occidentali. Ma negli ultimi mesi l’amministrazione a guida Joe Biden ha imposto una nuova serie di sanzioni su una serie di navi e compagnie di trasporto, intensificando al contempo le indagini per tracciare l’origine del greggio russo e la proprietà delle navi che lo trasportano.

L’effetto si vede ora: monitorando nave per nave, Bloomberg ha rilevato che oltre la metà delle cinquanta petroliere inserite di recente nell’elenco del Dipartimento del Tesoro Usa non hanno preso nuovi carichi da allora. Addirittura, una nave in particolare (NS Leader, della compagnia statale di trasporti Sovcomflot) ha invertito la rotta di 180 gradi al largo del Portogallo proprio gioved’ scorso, quando Washington ha reso pubblico il nominativo del proprietario. E non è stata l’unica. Diciotto petroliere, forse diciannove, continuano a operare; le altre trentuno sono o ferme, o in attesa di caricare. E tutto indica che la flotta non sta operando a regime.

Il risultato di questo giro di vite è che per i produttori russi sta diventando sempre più costoso trasportare il greggio – cosa che li costringe a venderlo a prezzi inferiori, limitando il flusso di denaro verso i forzieri di Vladimir Putin. In effetti, stando agli osservatori del settore (tra cui l’Agenzia internazionale per l’energia), il petrolio russo viene scambiato con sconti sempre più consistenti. Di recente l’ha ammesso anche il ministro all’energia Alexander Novak, mentre Mosca continua con la politica dei tagli alla produzione che sostiene anche nella cornice dell’Opec+.

Intanto, sia Usa che Regno Unito – patria degli assicuratori marittimi senza cui è quasi impossibile trasportare greggio – hanno segnalato che vogliono aumentare la pressione sulla flotta ombra russa per muovere il greggio russo verso i fornitori di servizi occidentali. E un aggiornamento al tetto al prezzo originario richiederà ai proprietari delle navi, come anche agli assicuratori, di operare una due diligence più approfondita per identificare eventuali pratiche di evasione delle sanzioni.

Sono esempi della più ampia spinta occidentale per tappare i buchi: stando a Politico anche l’Ue si starebbe preparando a imporre per la prima volta delle sanzioni secondarie sulle entità non russe (leggi: cinesi, indiane e non solo) che sospetta di star aiutando la Russia ad aggirare i controlli alle esportazioni di materiale a doppio uso, civile e militare. In parallelo, Bruxelles ha appena approvato una legge in allineamento con il G7 che gli consentirebbe di usare i fondi russi confiscati per la ricostruzione dell’Ucraina.

Per Mosca le cose vanno meglio sul versante del gas: Euractiv segnala che a quasi due anni dall’inizio dell’invasione su larga scala, la dipendenza austriaca dal gas russo si è alzata dall’80% al 98%. In parte per via della forma dei contratti – in pratica la major austriaca Omv deve pagare se non accetta le forniture russe –, in parte per i prezzi più alti della concorrenza – le importazioni da Germania, che si approvvigiona sempre più sul mercato globale del gas naturale liquefatto, e Italia, che invece riceve sempre più gas da Africa e Medioriente.

Non sembra che in Austria ci sia lo stesso appetito di fare la stessa scelta politica, nonostante lo sconcerto delle autorità: al momento Vienna non ha un piano per cessare le importazioni da Mosca al 2028, come aveva promesso. Ma nel mentre sta prendendo sempre più sostanza il corridoio SoutH2, che parte dall’Algeria, passa per l’Italia e finisce in Germania via Austria. È possibile che Vienna stia guardando a sud per la soluzione alla dipendenza russa, come del resto già fanno Roma (anche tramite il Piano Mattei) e Berlino, che ha appena chiuso il primo, storico accordo di fornitura con Algeri. Uno sviluppo che, come rileva l’esperto Francesco Sassi, esplicita il riconoscimento del ruolo strategico del Belpaese come hub energetico chiave dell’Unione europea.


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