L’Italia ha retto le ultime crisi energetiche, così come il suo sistema elettrico. Questo non significa però che non sia necessario cercare di appianare i suoi squilibri, in vista di un futuro sempre più elettrificato
Promosso con la sufficienza, fino al 2028. Questo il verdetto dell’ultimo rapporto Terna sull’adeguatezza del nostro sistema elettrico: se tutto andrà secondo i piani esso “risulterà mediamente adeguato e non necessiterà di nuova capacità”. Del resto l’estate è trascorsa senza episodi di stress, a dispetto della scarsa piovosità di inizio anno e nonostante un picco di domanda ancora in crescita (+2,5%), ormai non lontano dal suo massimo storico.
Anche la scorsa volta il verdetto fu lo stesso: eppure l’estate 2022 era stata quella della tempesta perfetta, con il sistema messo alla prova come mai prima da caldo, siccità e scarsità di import. Ora di quel luglio è rimasto un segno nelle statistiche: quello zero toccato per la prima volta dal Margine minimo di Adeguatezza, la “scorta” di potenza che resta disponibile quando il sistema, tra generazione e import, copre i fabbisogni al loro punto di picco.
Fino al 2014 eravamo vicini addirittura al 50% e si poneva il problema della sovracapacità, ma venivamo da una fase di profonda transizione, quella del passaggio al gas naturale, la quale aveva scontato l’abbandono del nucleare e aveva movimentato un massiccio stock di investimenti: il nostro parco di generazione era così diventato il più efficiente al mondo (sia pur costoso), tra i meno inquinanti e anche tra i più avanzati, quanto ad energia rinnovabile (sia pur incentivata).
Troppi incentivi, eccessivo sovradimensionamento, dismissioni ritardate, sopravvalutazione della domanda. Sicuramente c’era stato un po’ di tutto questo, ma tant’è: quella sovracapacità veniva riassorbita in pochi anni e ci consentiva di affrontare senza rischi la dismissione degli impianti più inquinanti e meno efficienti. Infatti già nel 2019 quella “scorta” si attestava attorno ad un ragionevole 10%.
Poi nel 2020, sull’onda del Covid, si riduceva di tre volte e infine nel 2021 era pericolosamente già quasi a zero: la crescita delle rinnovabili aveva rallentato, la domanda era ripartita e il vuoto delle dismissioni non era stato colmato, soprattutto perché le rinnovabili, per la loro non programmabilità, contribuiscono molto poco alla disponibilità di capacità e necessitano per questo di un robusto supporto da parte degli accumuli.
Così, l’estate 2022, ecco il valore più basso in assoluto, il più basso che si può.
Avvenne in condizioni estreme, certo, ma ora sappiamo che quelle condizioni sono una realtà e, Terna avverte, potrebbero non essere così improbabili in futuro e potrebbero anzi “comportare situazioni ancora più severe”: quell’estate si arrivò ad avere 20 GW di potenza termoelettrica indisponibile, ma almeno fino al 2018 ne basteranno anche solo cinque per metterci in difficoltà.
E sappiamo anche che può essere imprudente continuare a fare affidamento sulla disponibilità dell’import, fattore per noi “indispensabile”, ma la cui “estrema variabilità è destinata ad aumentare”.
Intanto anche quest’anno le temperature e la piovosità invernali non sono state incoraggianti, Terna ha già previsto un aumento del 30% delle ore di criticità per il prossimo luglio e diversi impianti prima dismessi vengono mantenuti ancora in esercizio: la buona notizia è che le rinnovabili sono cresciute molto, quasi il doppio dell’anno scorso, ma il picco della domanda potrebbe strappare verso l’alto, segnando il massimo da inizio secolo, e mettere di nuovo a nudo l’insufficienza di quella crescita.
D’altra parte siamo nel pieno di una nuova transizione, più profonda e decisiva che mai, quella dell’uscita dai combustibili fossili: ma siamo in ritardo nello switch tra fonti di generazione e stiamo rincorrendo. Dobbiamo accelerare, perché le emissioni che ancora possiamo permetterci di rilasciare stanno per esaurirsi, e dobbiamo farlo subito, perché gli anni più prossimi saranno i più critici.
Un altro punto di attenzione emerge però da quel rapporto.
Da qui a dieci anni la traiettoria di riferimento per la decarbonizzazzione (conforme al cosiddetto Fit for 55 europeo) prevede sviluppi imponenti nel campo delle rinnovabili, degli accumuli e delle reti. La flotta termoelettrica è prevista perdere via via peso e, se tutto andrà come previsto, potrà completarsi il phase-out degli impianti a carbone e di una quota degli altri: la crescita delle nuove fonti farà soccombere progressivamente gli impianti termoelettrici, i quali funzioneranno sempre meno, diventando quindi sempre più economicamente insostenibili.
Anche perché dovranno continuare a farlo con un inedito ruolo di copertura “pronta”, sempre più discontinua e rarefatta, pur essendo nati per un servizio continuo “di base”: questo, come si diceva, a motivo del grado di disponibilità ben diverso tra le due tipologie di produzione.
Fin qui un fenomeno, finanche auspicato, di spiazzamento tra diverse generazioni di impianti.
In realtà quegli impianti, sia pur divenuti missing money, dovranno in parte rimanere ancora operativi, al fine di assicurare la tenuta del sistema e soprattutto nei prossimi cinque anni: per questo dovranno essere adeguatamente remunerati, almeno finché non sarà predisposto il loro rimpiazzo (ad esempio con l’idrogeno o con il nucleare).
Così al 2033, se si realizzerà quanto ipotizzato, potrà effettivamente essere dismessa una capacità temoelettrica al massimo pari a 15 GW, ma a patto di aver aggiunto una capacità di rinnovabili e accumuli pari a 105 GW (circa sette volte) e di aver assicurato la “sopravvivenza” di 8 GW (circa la metà).
Alla fine, con un picco della domanda arrivato a 67 GW, la sola capacità di solare, eolico e accumuli sarà pari circa 150 GW (più del doppio), ma l’adeguatezza del sistema sarà preservata solo se rimarrà in funzione una potenza termoelettrica di almeno 41 GW (ben più della metà), per due su dieci dei quali occorrerà un compenso economico.
Un assetto quantomeno complesso da gestire. E se corressimo di più?
Potremmo avvicinarci al traguardo in meno tempo, perché aggiungeremmo una quantità ancora maggiore di nuova capacità pulita e aumenterebbero così i GW termoelettrici da poter dismettere: aumenterebbero però anche quelli “essenziali” da mantenere onerosamente in vita. Qualcuno ha citato in proposito quella specie di effetto “miraggio” detto Regina Rossa, preso a prestito dalla biologia evolutiva: l’uscita dai combustibili fossili si avvicina, ma la velocità per raggiungerla non basta mai.
Il fatto è che questa volta non si tratta solo di sostituire e aggiungere potenza, né il sovradimensionamento esasperato può essere la soluzione: c’è molto di più. Ad esempio la crescita disomogenea delle rinnovabili, sbilanciata sul fotovoltaico e sul Sud, con i carichi concentrati invece al Nord, quindi con una necessità di grandi capacità di smistamento e di stoccaggio, quest’ultimo soprattutto di lunga durata.
Dobbiamo accelerare, dicevamo, ma non dobbiamo farci trascinare in allunghi inverosimili, che potrebbero inasprire gli squilibri del sistema: peraltro il “mezzo” per primo (le infrastrutture di rete) potrebbe non tenere.
Rischiamo di “bruciarci” prima del tempo, l’abbiamo visto, un circolo vizioso potrebbe innescarsi: la sovracapacità eccessiva potrebbe questa volta provocare un livello ingestibile di overgeneration (le rinnovabili trasformano un flusso di risorse naturali che non si può fermare), che a sua volta potrebbe esacerbare il ricorso al curtailment (rifiuto della produzione da parte della rete) e alla fine far precipitare il prezzo dell’energia, scoraggiando così gli investimenti in nuova capacità pulita.
È quello che spesso si indica come effetto “cannibalismo”.
Il sistema elettrico nazionale va dunque incontro agli anni più delicati della nuova transizione, con obiettivi ambiziosi da raggiungere in poco tempo, ma con un tasso in drastico aumento dell’incertezza da inglobare, così come della programmabilità e della flessibilità da ricercare.
Terna suggerisce “una importante riflessione strategica”, soprattutto alla luce del processo di elettrificazione che sta rapidamente coinvolgendo i nostri consumi, “anche quelli legati ai bisogni di base (cottura, riscaldamento mobilità…)”: un sistema elettrico adeguato sarà sempre più vitale e per garantirne la sicurezza non basterà perseguire l’indipendenza energetica.
Occorreranno una governance chiara e attenta, una capacità ferma e tempestiva di visione, di programmazione e di indirizzo, con una prudente valorizzazione delle ridondanze: siamo sul filo e le insidie di una parsimoniosa sopravvalutazione dei calcoli probabilistici o di una visuale di breve termine sono troppo pericolose.
D’altronde, come in passato, rischiamo di arrivare alla fine della transizione con un livello inizialmente più alto del costo globale del sistema, per poi recuperare. In fondo però meglio arrivare, anche non proprio sfiniti, ma arrivare.