Sono trascorsi 25 anni dalla scomparsa del “ministro dell’Armonia”, protagonista della svolta di Fiuggi che portò al battesimo di Alleanza Nazionale. Nessuno ha mai più occupato il suo posto di mediatore. E oggi lo scudo Tatarella farebbe molto comodo a Giorgia Meloni
Avrebbe fatto molto comodo a Giorgia Meloni lo scudo Tatarella. Le avrebbe forse evitato di farsi il segno della croce tutte le volte che alcuni suoi luogotenenti aprono bocca. Sì, perché Giuseppe Tatarella (1935-1999), detto Pinuccio, era fatto così. Per chi, tra i suoi, sbagliava una dichiarazione pubblica, erano guai seri. Le sue sfuriate, per i malcapitati, erano proverbiali. Non a caso colui che venne chiamato il Viceré delle Puglie era, nella destra italiana, assai apprezzato e altrettanto temuto.
Il primo ad accorgersi del peso politico di “Pinuccio” fu Giorgio Almirante, leader storico del Movimento Sociale. Che nello scambio di consegne con Gianfranco Fini regalò al suo successore il seguente consiglio: “Puoi litigare con tutti, ma evita di litigare con Tatarella”. Sottinteso: non conviene.
In realtà, la raccomandazione almirantiana era alquanto pleonastica. Se Fini, nel 1987, salì sul trono della destra, il merito principale andava attribuito proprio al politico pugliese, suo principale sponsor e kingmaker, che già nei primi anni Ottanta aveva creato le condizioni per la staffetta, anche generazionale, al vertice missino.
Anche l’operazione di Alleanza Nazionale (1995) probabilmente non sarebbe mai arrivata in porto senza il silenzioso lavoro preparatorio di Tatarella, che già a metà degli Anni Settanta manifestava la sua insofferenza per le liturgie nostalgiche e per le ritualità fasciste che ancora accendevano gli irriducibili della Fiamma Tricolore. Agli inizi degli anni Novanta, il furbissimo “Pinuccio” colse l’opportunità dei referendum maggioritari (voluti da Mario Segni) per dare un colpo di acceleratore alla svolta che avrebbe condotto a Fiuggi al battesimo di Alleanza Nazionale, ossia alla rottura con l’eredità ideologica fascista.
Mentre quasi tutti i suoi colleghi di partito si buttarono a capofitto nella mischia per cercare di contrastare l’avvento del sistema maggioritario, Tatarella capì, per certi versi prima dello stesso Silvio Berlusconi, che quella sarebbe stata l’occasione buona per entrare nel Grande Gioco delle alleanze, da cui la destra italiana era tagliata fuori perché non compresa nell’arco costituzionale.
Tatarella capì che il bipolarismo era manna dal cielo per il cosiddetto “Polo escluso” e agì di conseguenza, intensificando incontri e contatti con tutti i sostenitori del modello elettorale maggioritario. Il sistema di voto nelle Regioni porta tuttora le sue impronte, sin dalla denominazione affibbiatagli: Tatarellum.
Così come capì sùbito, Pinuccio, il valore legittimante, per la destra italiana, della riforma costituzionale all’esame della Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Il fallimento di quel tentativo, ha ricordato Fini, fu la più la delusione più grande per Tatarella.
Prima di passare a miglior vita, l’8 febbraio di 25 anni addietro, l’eminenza grigia della destra, già vicepremier e ministro dell’armonia nel primo governo Berlusconi, era impegnata a superare l’esperienza del Polo della Libertà costruito dal Cavaliere. Voleva dare vita, Tatarella, a un’iniziativa ancora più ardita: “Oltre il Polo”.
Chi scrive gli chiese un giorno che cosa significasse “Oltre il Polo”, a quale nome e cognome corrispondesse, perché, si sa, dietro le formule, in politica, specie in Italia, si nascondono le carte d’identità dei protagonisti, dei punti di riferimento e dei soggetti attuatori. ““Oltre il Polo” potrebbe guardare a personalità come Giuliano Amato sul versante politico e a intellettuali come Sergio Romano, Angelo Panebianco e Ernesto Galli della Loggia sul versante culturale”, rispose Tatarella senza eludere la domanda. “L’importante – spiegò – è realizzare uno schieramento di moderati, perché il 65 per cento degli italiani è di orientamento politico moderato. Io punto a unire tutti i moderati”.
Il gollismo era la sua ossessione, il suo obiettivo. Una parola cui Tatarella assegnava un significato binario, metà serio e solenne, metà scanzonato e goliardico: gollismo nel senso della linea politica del presidente francese Charles de Gaulle e gollismo nel senso di segnare i gol, ossia di vincere le elezioni. Anche il Fattore Cultura era un suo pallino.
Era stato Tatarella a far inserire, sorprendendo tutti, il comunista Antonio Gramsci nel Pantheon ideologico di Alleanza Nazionale. Di Gramsci lo affascinava il concetto di egemonia culturale, la strategia tesa a conquistare prima le menti della popolazione e successivamente gli uffici del governo e delle amministrazioni pubbliche. Non a caso, ad un certo punto del suo cammino, Tatarella volle fare a Bari l’assessore comunale alla cultura.
Per lui quella postazione era essenziale per sperimentare, già sul territorio, un gramscismo di destra in versione bonsai, indispensabile però per occupare nuovi spazi nella società.
A inizio 1999 gli venne in testa un’idea che, se portata a termine, avrebbe fatto più rumore di un petardo a San Silvestro: proporre al “Premio Nobel” Dario Fo di celebrare insieme a Bari il 25 aprile, la Festa di Liberazione. Sarebbe stata la più teatrale dissociazione dal fascismo e dal neofascismo che si potesse immaginare. Ovviamente non se ne fece nulla perché Tatarella non superò l’intervento chirurgico cui fu sottoposto a Torino.
A Pinuccio piaceva stupire senza apparire. Non amava le luci della ribalta. Era refrattario ai salotti tv e al presenzialismo mediatico. Non sgomitava per un assolo a Porta a Porta, anzi si defilava a ogni invito. Non curava l’immagine, tanto meno l’abbigliamento. Ma quasi tutti, alleati e avversari, sapevano che le sue quotazioni, nel borsino del potere, erano inversamente proporzionali alle apparizioni sullo schermo.
Chissà quale sarebbe stato il percorso della destra italiana se Tatarella non si fosse prematuramente congedato dalla vita terrena. Chissà se Fini avrebbe rotto con Berlusconi. E chissà tante altre cose. Forse oggi Tatarella non avrebbe scambiato molte parole con l’ungherese Viktor Orbán, che sta a una destra europea e democratica come Rocco Siffredi alla castità.
Forse avrebbe contrastato vivacemente l’innalzamento dei toni da parte dei suoi parlamentari su temi che meriterebbero decibel più contenuti. Forse avrebbe cercato un modus vivendi più pacato con le opposizioni.
Di sicuro non avrebbe rinunciato al suo congenito mediazionismo, con punte di complicità, con i suoi avversari esterni. Di sicuro avrebbe condannato ogni ambiguità con il lascito del fascismo. Di sicuro non sarebbe stato tenero verso i ministri e i sottosegretari più superficiali e inadeguati.
E sulla Meloni? Quasi certamente le avrebbe suggerito di trovarsi un clone di Tatarella come scudiero e di non farsi mai sedurre dalle sirene estremiste. In soldoni: le avrebbe suggerito di formare e coltivare una classe dirigente degna di qualità. Una parola.