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Terzo mandato e autonomia regionale. De Tomaso racconta la sfida infinita a destra e sinistra

L’ombra del voto anticipato qualora dopo le votazioni europee perdurasse il braccio di ferro tra Meloni e Salvini sul limite ai mandati per sindaci e governatori. I due leader appaiono come piloti di Formula Uno orientati a non tirare per primi il freno al termine del rettilineo. E però, per evitare la collisione, uno dei due dovrà rassegnarsi a cedere. Il corsivo di De Tomaso

Prima o poi doveva accadere. Prima o poi lo stop ai mandati illimitati per presidenti regionali e sindaci doveva provocare un putiferio. Il che è accaduto a distanza di qualche lustro dall’introduzione della delimitazione temporale per gli incarichi ai vertici delle amministrazioni locali.

E dal momento che, in politica, tutto si tiene, non è escluso che lo scontro tra fautori e contrari al terzo mandato possa provocare scossoni, crepe anche nella maggioranza di governo e nell’opposizione parlamentare.

Diciamo sùbito che l’idea di non consentire la terza elezione consecutiva a presidenti regionali e sindaci tutto era fuorché stravagante. Semmai era frutto del principio liberale che, nei secoli scorsi, si era contrapposto all’immobilità feudale: la demarcazione temporale del comando. Nell’età feudale il Principe regnava e governava senza soluzioni di continuità.

La prima vittoria della rivoluzione liberale, che farà da apripista alla conversione democratica di molti Stati, fu appunto l’innalzamento dei paletti temporali per frenare un potere personale che, da secoli, era considerato più eterno e intoccabile dell’universo.

Non è un caso che la democrazia più sensibile ai precetti liberali, cioè quella di Zio Sam, abbia fissato in due soli mandati il periodo massimo di permanenza alla Casa Bianca per i presidenti, oltre che, su altri livelli, per la maggior parte dei governatori dei 50 Stati dell’Unione.

Gli americani non hanno invece previsto limiti per le candidature alla Camera e al Senato, perché un conto è la funzione di rappresentanza, un conto è il ruolo di governo. Chi ha responsabilità esecutive dispone di un potere maggiore che, come tale, va controllato e limato, a partire dal numero degli incarichi consentiti.

Ecco perché, anche in Italia, i parlamentari possono ripresentarsi infinite volte per chiedere agli elettori la propria riconferma in aula, mentre i presidenti regionali e i sindaci, dopo il sì alla loro investitura diretta, hanno dovuto adeguarsi a una disciplina assai più restrittiva.

Ora si vuole rimettere tutto in discussione, non perché siano venute meno le ragioni dello stop al terzo incarico consecutivo, ma perché i giochi della politica e i calcoli di alcuni leader suggeriscono di rivedere la materia. In breve: Matteo Salvini vuole che Luca Zaia resti il più a lungo possibile alla Regione Veneto, pena il rischio di ritrovarselo, prima o poi, come scomodo rivale per la guida della Lega. Una prospettiva che turba i sonni del vicepremier e ministro delle Infrastrutture.

Ovviamente, Giorgia Meloni non ha alcuna intenzione di assecondare i desideri dell’alleato, anche perché Fratelli d’Italia, pur sfiorando quota 30% nelle rilevazioni di voto, è sottorappresentata in cima alle Regioni italiane.

Non si sa come andrà a finire il braccio di ferro tra i due, forse si dovrà attendere il verdetto delle prossime elezioni europee, a giugno. La sensazione è che la presidente del Consiglio non cederà, tanto è vero che ha recepito l’altolà al terzo mandato anche nella bozza di riforma che introdurrebbe l’elezione popolare del premier.

Più chiara di così. Forse la Meloni, per venire incontro a Salvini sul caso Zaia-Veneto, potrebbe chiedergli di impegnarsi a non candidare il leghista Attilio Fontana nelle regionali lombarde. Ma anche questo compromesso appare assai complicato, non si contano le variabili che potrebbero bloccarlo già ai nastri di partenza.

E tuttavia la matassa si presenta vieppiù aggrovigliata anche perché analoghe tensioni e contrapposizioni sul terzo mandato vanno esplodendo anche a sinistra, dove il campano Vincenzo De Luca, in contrasto con la linea di Elly Schlein, leader del Pd, intende succedere a sé stesso per la terza volta, senza se e senza ma.

De Luca è il più scatenato in proposito, ma sulla sua stessa barca, per obiettivi equipollenti, si trovano anche l’emiliano Stefano Bonaccini e il pugliese Michele Emiliano. De Luca non è tipo da gettare la spugna, fra l’altro dispone di un’arma assai pesante per mettere pressione al governo e al proprio partito: la minacciata rivolta del Sud contro l’autonomia regionale differenziata.

Ecco perché i due temi, terzo mandato e autonomia differenziata, sono più legati di due fratelli siamesi. Ecco perché le due prime donne della politica italiana (Meloni e Schlein) si ritrovano, sul tetto ai presidenzialismi locali, sulla stessa parte della barricata. Entrambe debbono rintuzzare gli assalti di due leghisti fuori controllo: uno, ufficiale, al Nord e l’altro, potenziale, al Sud.

Lo spartiacque sarà il voto europeo. Se Salvini dovesse uscire malconcio, aumenterebbero le probabilità di uno strappo della Lega (se non sfiducerà il leader sconfitto) ai danni della presidente del Consiglio. Idem a sinistra, qualora il Pd non dovesse manifestare soddisfazione dopo la conta delle schede. I ribelli come De Luca, verosimilmente, tenterebbero un ribaltone contro la Schlein, con buona pace del quadro politico dipinto finora.

Non sappiamo come verranno ricomposti i contrasti sopra delineati, che peraltro non sono gli unici, anzi sono destinati ad allargarsi a macchia d’olio su altri temi in prossimità dell’euro-voto regolato dal sistema elettorale proporzionale, che favorisce rivalità e rissosità all’interno delle coalizioni.

Per ora, Meloni e Salvini somigliano a due piloti di Formula Uno orientati a non tirare per primi il freno al termine del rettilineo. E però, per evitare la collisione, uno dei due dovrà rassegnarsi a cedere. I sondaggi dicono che sarà Salvini a rallentare, per esorcizzare il fantasma del Papeete, la discoteca da cui partì, nell’estate 2019, il siluro al governo gialloverde con Giuseppe Conte.

Staremo a vedere, anche perché non sarebbe la prima volta che la stabilità di un governo venga messa in pericolo dai dispetti interni alla maggioranza. Se poi si dovesse aggiungere anche l’incertezza sullo scenario internazionale, la prospettiva di una rottura che preluda a elezioni anticipate risulterebbe tutt’altro che fantapolitica. E almeno per ora, la titolare di Palazzo Chigi non dà l’impressione di temere il ricorso alla consultazione popolare.


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