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Così i droni sono diventati l’arma-simbolo del conflitto in Ucraina. Scrive Borsari

Di Federico Borsari

L’uso estensivo dei droni è in realtà una tendenza già emersa in altri teatri bellici della storia recente. Ciò che però distingue il caso dell’Ucraina è, innanzitutto, il numero senza precedenti di sistemi a pilotaggio remoto di ogni tipo e dimensione schierati da entrambe le fazioni. L’analisi di Federico Borsari, Leonardo fellow presso il Center for european policy analysis, Cepa, e Nato-2030 global fellow, pubblicata sull’ultimo numero della rivista Formiche

I droni rappresentano uno dei simboli dell’attuale conflitto in Ucraina non solo sul piano delle operazioni militari, ma anche in virtù della capacità di questa tecnologia di catturare l’immaginario pubblico e avere un impatto trasformativo sul settore della difesa. L’uso estensivo dei droni è in realtà una tendenza già emersa in altri teatri bellici della storia recente, dalla Siria al Nagorno-Karabakh, passando per la Libia. Ciò che distingue il caso dell’Ucraina è, innanzitutto, il numero senza precedenti di sistemi a pilotaggio remoto di ogni tipo e dimensione schierati da entrambe le fazioni.

In base ai dati disponibili, infatti, si possono stimare in decine di migliaia i droni distrutti ogni mese in Ucraina, principalmente a causa delle contromisure di guerra elettronica usate dalle forze di Kyiv e Mosca. Oltre alla quantità, però, sono anche la varietà di sistemi e relative capacità, nonché l’innovazione nelle tecniche e tattiche di utilizzo a rendere il conflitto ucraino una vera e propria “guerra di droni”.

In questo senso è necessario sottolineare l’enorme impatto operativo dei droni commerciali – dai sistemi Parrot francesi ai celebri Mavic del colosso cinese Dji, fino ai piccoli droni da competizione Fpv (First per- son view) – che in Ucraina vengono utilizzati per molteplici missioni, dalla ricognizione al coordinamento del fuoco di artiglieria, all’attacco. In generale, i fattori che più di tutti hanno favorito il successo dei droni sono i costi più contenuti rispetto a velivoli tradizionali, la facilità di utilizzo e il minor rischio per il personale.

Sul piano operativo i droni hanno reso “trasparente” il campo di battaglia, garantendo una sorveglianza costante, facilitando l’individuazione dell’avversario e complicando enormemente l’uso del fattore sorpresa e le azioni di manovra su larga scala. Questo ha anche rivoluzionato il processo di ingaggio dell’obiettivo – ciò che in gergo militare anglosassone è chiamato kill-chain – diminuendo drasticamente il lasso di tempo tra l’individuazione del bersaglio e l’attacco. In Ucraina questo processo è dovuto a due ragioni principali: in primis, la diffusione capillare dei droni a tutti i livelli delle forze armate; in secondo luogo, l’integrazione dei droni e delle unità di artiglieria in un’architettura di comando e controllo digitalizzata.

Al contempo, tuttavia, è anche importante sfatare il mito dei droni come arma risolutiva, ricordando che la loro efficacia dipende dal grado di integrazione con altre capacità, dagli assetti spaziali alla cyber-warfare, ad architetture di comando e controllo avanzate e digitalizzate. Inoltre la tecnologia da sola non fa la differenza. Altrettanto fondamentale è la capacità di integrarla nei concetti operativi e nella dottrina attraverso sperimentazione, addestramento e simula- zioni. Questi aspetti sono particolarmente importanti perché rendono l’impiego efficace dei droni (così come di molti altri sistemi) assai più complesso di quanto non si pensi.

Come accennato, i droni esemplificano l’uso sempre maggiore di tecnologia commerciale per scopi militari. Questa tendenza sembra destinata a rafforzarsi e indica un parziale cambio di paradigma rispetto al passato, quando era l’innovazione nata per esigenze militari (l’esempio di Internet è quello più ovvio) a sfociare nel settore civile. In questo modo, tecnologie e sistemi all’apparenza innocui ma potenzialmente letali diventano più facilmente accessibili, offrendo nuove (ma modeste) capacità e opzioni militari anche ad attori – statali e non – con risorse limitate.

Allo stesso tempo, la proliferazione di tecnologie o componenti dual use ha implicazioni significative non solo per la sicurezza, ma anche per il modo in cui le tecnologie per la difesa sono sviluppate, acquisite e integrate. La tecnologia dual use offre grande flessibilità grazie al numero elevato di soluzioni, alla vasta e immediata disponibilità, nonché ai costi solitamente più contenuti, seppur a scapito delle performance rispetto a sistemi militari. Questo aspetto è emerso chiaramente in Ucraina, dove l’enorme quantità di droni commerciali ha sopperito ai loro limiti qualitativi.

Come conseguenza, molti governi intendono dotarsi di un grande numero di droni sacrificabili, più economici, facilmente rimpiazzabili e modulari (si veda l’iniziativa americana Replicator), in vista di eventuali conflitti ad alta intensità. Tale esigenza significa anche ripensare i modelli di produzione e acquisizione dell’industria della difesa, sfruttando non solo la scalabilità e le infrastrutture della produzione civile, ma anche l’innovazione nel settore commerciale attraverso un approccio dal basso che favorisce sinergie tra la difesa e il comparto civile, integrando maggiormente il know-how del settore privato e delle università nonché il capitale di investitori privati (ad esempio venture capitals).

Questo richiede normative e incentivi che favoriscano l’innovazione, oltre a uno snellimento dell’iter burocratico che caratterizza l’intero processo di procurement nel settore della difesa, dalla scelta della capacità, ai test, all’acquisizione finale. In questo contesto, la natura estremamente modulare dei droni facilita l’integrazione continua (on the fly) di nuove capacità e si coniuga al meglio con un approccio meno tradizionale al settore della difesa. Su questo, i Paesi europei possono imparare molto dall’Ucraina.

Formiche 199

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