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Ucraina, intelligence diplomacy e nuovi equilibri internazionali. Parla Massolo

Dopo due anni di conflitto, in Occidente non si dice più aiutiamo Kyiv a vincere ma a mettersi in sicurezza. I governi chiedono sempre più ai servizi “di influire sullo sviluppo degli eventi”, per questo si parla di azioni e non più soltanto di informazioni per la sicurezza. La distinzione tradizionale interno-esterno? “Ha fatto il suo tempo, meglio un ecosistema di agenzie interdipendenti con compiti specifici”. Conversazione con il presidente dell’Ispi, già segretario generale della Farnesina e direttore del Dis, Giampiero Massolo

Uno degli elementi nuovi della guerra in Ucraina è il ruolo pubblico dell’intelligence tra “declassificazione strategica” e “intelligence diplomacy”. L’hanno riconosciuto anche alcuni dei protagonisti, a partire da due diplomatici come William Burns, oggi direttore dell’americana Central Intelligence Agency, e Richard Moore, attuale capo del britannico Secret Intelligence Service. Ne parliamo con l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), già segretario generale della Farnesina e direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, la struttura della presidenza del Consiglio che coordina le attività delle due agenzie d’intelligence.

Con la morte in carcere dell’oppositore Alexei Navalny, che messaggio ha voluto mandare Putin?

È stato sicuramente un modo per dire all’Occidente che lui va avanti per la sua strada e che attribuisce un valore non elevato alla reazione occidentale all’interno di una guerra che fin dall’inizio, anche se non è stato ben compreso subito, aveva un po’ il sapore di scontro tra il mondo occidentale e la Russia revisionista. Inoltre, Putin ha voluto mandare anche un messaggio interno.

Quale?

A chiunque abbia la tentazione o l’ambizione di contrapporsi, ecco questa serie di “decapitazioni” di dissidenti. Il caso di Navalny ha avuto grande eco in Occidente. Ma ci sono altri casi che sono stati ancora più lampanti per l’opinione pubblica russa, come la fine di Yevgeny Prigozhin o l’esecuzione in Spagna del pilota russo Maxim Kuzminov che aveva defezionato. Un messaggio in stile Kgb ai traditori, che non si perdona.

A due anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, l’unico possibile game-changer può essere la fine degli aiuti occidentali stante la situazione sul campo?

La fine degli aiuti occidentali rappresenterebbe l’ammissione da parte dell’Occidente che la contrapposizione ideologica tra le democrazie e l’autocrazia si è risolta con la sconfitta delle prime. Per questo, non ci sarà fine degli aiuti occidentali. Ma ci sarà una nuova situazione da gestire segnata da alcuni elementi: non è mai venuta meno la regola di ingaggio dell’Occidente che prevede aiuti ma senza contrapposizione diretta tra Nato e Russia; la controffensiva ucraina non ha avuto i risultati sperati; la sconfitta dei russi sul piano militare non è possibile. Tutto questo ha portato un’ulteriore conseguenza: la fatica che si avverte più o meno ovunque nei Paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti in piena campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre. E l’ombra di Donald Trump si sta allungando.

In che modo?

Non si dice più “aiutiamoli a vincere” ma “aiutiamoli a mettersi in sicurezza”. Da ciò derivano tre elementi: sul campo, la necessità per gli ucraini è quella di assumere una posizione difensiva; in termini militari, l’implicito riconoscimento che i territori occupati attualmente dai russi non verranno abbandonati dagli stessi; l’esigenza di trovare la maniera di avvicinare sempre più – con tempi, ritmi e modi dettati dalla politica – più l’Ucraina al sistema euro-atlantico.

E se Trump dovesse vincere a novembre e tornare alla Casa Bianca a gennaio?

Credo che Trump, qualora tornasse presidente, spingerebbe gli ucraini verso un accomodamento. Ma perfino lui non potrebbe farlo ignorando questi parametri. Ma c’è un corollario.

Quale?

Bisognerà mettersi d’accordo su che cosa si intende per accomodamento. Un assetto di fatto e assetto negoziato sulla base della situazione sul terreno possono essere accettabili. A differenza di un assetto alle condizioni di Putin, che quando si dice essere pronto a negoziare in realtà pretende la resa. Il tutto, in un contesto segnato dal summit Nato di Washington a luglio, per i 75 anni dell’alleanza, dove si discuterà l’avvicinamento dell’Ucraina al sistema euro-atlantico e dal fatto che il flusso attuale di aiuti consentirà probabilmente agli ucraini di passare tutto il 2024 ma i problemi veri si porranno dopo, con la nuova amministrazione americana.

A Washington si discuterà anche del futuro dell’alleanza in un mondo sempre più conflittuale. Come lo immagina?

L’importanza di quello che un tempo si sarebbe definito fuori area Nato sarà crescente considerata la correlazione tra i molti propagamenti del disordine mondiale. Difficilmente l’alleanza verrà meno alla regola di ingaggio che abbiamo visto in ucraina, ovvero difficilmente si contrapporrà direttamente ad avversario potenzialmente esistenziale, che sia la Russia nucleare o la Cina di Xi Jinping. Questo fatto potrà mitigare il rischio di escalation delle crisi in maniera irreparabile. Ciò non significa che l’alleanza non amplierà le collaborazioni.

E anche sulla Nato si allunga l’ombra di Trump.

Non credo che Trump abbandonerà la Nato. Tuttavia, l’Europa dovrà fare la propria parte. Non perché si possa permettere una soggettività davvero autonoma data la magnitudine delle sfide. Sicuramente verrà chiamata a contribuire, sia a titolo nazionale sia a titolo europeo, a un’ipotesi seria di difesa europea che costituisca un embrione di deterrenza e una componente  europea significativa dell’alleanza transatlantica.

Che cos’è cambiato nel ruolo dell’intelligence con la guerra in Ucraina?

Di fondo, all’intelligence i governi continuano a chiedere tre cose: contestualizzare fenomeni complessi; fornire l’informazione giusta al momento opportuno; cambiare le situazioni sul terreno ovvero influire sullo sviluppo degli eventi. Quest’ultima componente ha continuato ad accrescersi. E così non parliamo più di “informazioni per la sicurezza” bensì di “azioni per la sicurezza”, sia dal punto di vista mediatico – e in questo senso è straordinario come l’intelligence sia stata weaponizzata nella guerra delle informazioni – sia per quanto riguarda l’utilizzo dell’intelligence come parte attiva di un sistema di negoziato, di prevenzione e di risoluzioni dei conflitti. L’intelligence è una componente di un sistema più ampio che comprende diplomazia, forze dell’ordine e militari, tutte sotto la politica ma tutte in grado di portare il loro specifico contributo.

Brett Holmgren, assistant secretary a capo del Bureau of Intelligence and Research del dipartimento di Stato americano, ha collegato questa svolta al nuovo approccio indicato dal segretario Antony Blinken in un discorso di settembre alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, con il superamento dell’ordine post Guerra fredda verso una nuova era di competizione strategica in cui gli Stati Uniti hanno bisogno di rinsaldare le partnership. È così?

Come Blinken, anche Burns è un diplomatico. E non è un caso. Eravamo abituati a un’epoca di cooperazione, di deterrenza. Quello attuale, invece, è un quadro di contrapposizione. È emerso non solo il competitor, ma il nemico.

Davanti a questo nuovo quadro, nei giorni scorsi sir Alex Younger e sir Jeremy Fleming, già a capo rispettivamente del Secret Intelligence Service e del Government Communications Headquarters (l’agenzia britannica di signals intelligence), hanno suggerito una riorganizzazione del comparto intelligence per contrastare direttamente le minacce, favorendo l’integrazione all’isolamento. È d’accordo?

Lo sostengo da tempo. La distinzione tradizionale interno-esterno ha fatto il suo tempo. Concentrandosi sulla minaccia si possono individuare più facilmente i filoni tematici. Meglio, dunque, un ecosistema di agenzie interdipendenti ma ognuna con il compito di rispondere a una minacce specifica.



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