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Una mattinata a Forte Braschi, tra storie e miti dell’intelligence italiana

Nella periferia Ovest della capitale sorge il forte prussiano di fine Ottocento che un tempo si mimetizzava con l’ambiente circostante. Da quasi un secolo ospita l’intelligence e custodisce segreti. Circa dieci anni fa è iniziata un’opera di restauro conservativo pensata, grazie anche al museo pieno di cimeli e congegni da spie, per coltivare la memoria storica. Siamo stati in visita, accolti dal direttore Caravelli

Forte Casal Braschi, più comunemente Forte Braschi. È uno dei quindici forti del Regio Esercito che componevano il campo trincerato di Roma, costruiti fra il 1877 e il 1891 a difesa della città dopo l’unità d’Italia. Si estende per dieci ettari e prende il nome dal casato cesenate che ha avuto la titolarità per meno di un ventennio nell’Ottocento. Pochissimo rispetto ai tre secoli passati nelle mani dei Sacchetti, famiglia di banchieri e mercanti fiorentini. E per una serie di circostanze legate al tempo in cui fu scelto il sedime per la costruzione, questo forte prussiano conserva il nome dei Braschi nonostante il passaggio di proprietà nel 1861 ai Torlonia, emergente famiglia di mercanti di tessuti giunta a Roma al seguito dei napoleonidi. Costo, compreso l’esproprio per “pubblica utilità” del 1877: 978.000 lire, oltre 4 milioni di euro oggi. Giorni per la costruzione: 1.476, dal 9 novembre 1877 al 24 novembre 1881.

Siamo nella periferia Ovest di Roma, su via della Pineta Sacchetti, i cui pini marittimi – curiosità – sono stati voluti dai Torlonia mentre l’autentico Pigneto Sacchetti è nei prassi dell’attuale via del Pineto Torlonia.

A differenza dell’Acquario del russo GRU, della Piscina della francese DGSE, della Ciambella e del Legoland dei britannici GCHQ e SIS (o MI6) e della Fattoria dell’americana CIA, Forte Braschi non ha bisogno di nomignoli. È il marchio dell’AISE, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, il cui motto è Intellego ac tueor, ossia “comprendo e difendo”. Allo stesso modo, in passato, nell’ultimo secolo, è stato il marchio dell’intelligence militare italiana: dal 1925, infatti, ha ospitato SIM, SIFAR, SID e SISMI. Qui ha sede anche il Raggruppamento unità difesa.

È una mattinata di sole. Veniamo accolti cordialmente dal direttore Giovanni Caravelli e dal suo staff. Poi condotti verso la caponiera di gola, dove vengono ricevuti – caffè e qualche dolcetto – gli ospiti. C’è una discreta libreria accanto a noi: non può mancare – e come potrebbe? – qualche volume del maestro della spy-story John le Carré. Qui si può apprezzare appieno il restauro conservativo avviato un decennio fa dall’allora direttore Alberto Manenti e portata avanti con grande convinzione dal suo successore, un generale dell’Esercito che oggi si muove con grande orgoglio tra i tunnel e gli spazi del forte.

Un pezzo di storia di Forte Braschi la racconta la Piazza d’armi, dove furono eseguite due delle 114 esecuzioni comminate dal regime fascista tra il 1931 e il 1934: nel 1931 fu fucilato Michele Schirru, che pianificava un attentato contro Benito Mussolini, e nel 1933 Ugo Traviglia, maresciallo della Marina condannato per spionaggio.

Un altro pezzo della storia di Forte Braschi, la si respira anche in quella che un tempo era la polveriera, che poteva ospitare fino a 54 tonnellate di esplosivo. Sotto questi tunnel hanno dormito nei decenni, anche 700 alla volta, su pagliericci, i militari dei reparti artiglieria e fanteria (mentre una ventina di letti erano riservati ai più alti ufficiali). Alcuni di loro hanno lasciato nome, cognome e data incisi sulla pietra.

Per chi lavora qua, Forte Braschi è un paesino, sinonimo di sacralità e comunità, con un forte senso di appartenenza nonostante un pizzico di gossip.

Il forte oggi è intitolato a Nicola Calipari, funzionario del SISMI, uno dei caduti dell’intelligence italiana. La macchina su cui fu ucciso mentre si recava all’aeroporto di Baghdad dopo la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena è qui. Ben visibili i segni dei rilevamenti della scientifica. È esposta all’ingresso dell’edificio principale, quello che ospita i vertici dell’agenzia, con una bellissima vetrata vista Cupolone. Ma anche la Sede di governo alternata, già Centro decisionale nazionale, una sorta di war room per eventuali riunioni di emergenza, da minaccia immediata alla sicurezza nazionale, del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica. In questa sala c’è un esemplare della macchina tedesca Enigma. Una porta conduce a un ufficio riservato al presidente del Consiglio, sempre pronto per situazioni di crisi, nell’ipotesi in cui Palazzo Chigi non sia disponibile. Un attacco nucleare, per esempio.

La vettura e i monumenti, appena accanto all’iconico portale con la scritta “Forte Casal Braschi”, di Calipari e degli altri caduti dell’intelligence (Vincenzo Li Causi, Lorenzo D’Auria e Pietro Antonio Colazzo) sono qui a ricordare il sacrificio dei nostri uomini, ci dicono. A ricordare la nostra storia. A chi lavora oggi a Forte Braschi. Ma anche a chi, come noi, visita questo luogo “sacro”.

La volontà di coltivare la memoria storica dell’intelligence italiana, in particolare quella militare, è stata alla base del restauro conservativo e del museo.

Coltivare implica conoscere e diffondere.

Prima di tutto all’interno. Alcuni personaggi che hanno compiuto gesta eroiche non possono non essere noti a chi oggi vive e anima questa cittadella. Per questo, vengono ricordati al museo. Tra loro c’è il carabiniere Manfredi Talamo, che durante la Seconda guerra mondiale riuscì a mettere le mani sul Black Code americano penetrando nell’ambasciata di Via Veneto, prima di essere trucidato, assieme ad altri 334 italiani, alle Fosse Ardeatine. Per volere – pare per vendetta – di Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma. C’è anche uno spazio dedicato al colonnello Anano Borreo, capo-equipaggio dell’Argo 16 precipitato a Porto Marghera il 23 novembre 1973 poco dopo il decollo dall’aeroporto di Venezia-Tessera. E c’è anche la riproduzione dell’ufficio dell’ammiraglio Fulvio Martini, nome in codice Ulisse, capo del SISMI dal 1984 al 1991. Sulla sua scrivania ci sono una sua foto, la sua scheda personale e il suo telefono con sopra una targhetta in oro che ricorda che è vietato parlare di segreti al telefono. Per molti il motto di Forte Braschi è ancora quello del suo SISMI: Omnia silendo ut audeam nosco, ovvero “Di ogni cosa mi informo in segreto per osare”.

Il percorso prevede anche alcuni cimeli che raccontano l’evoluzione della tecnologia in vari settori d’interesse dell’intelligence: telecomunicazioni, radiotrasmissioni ed intercettazioni, crittografia e microfotografia. Ci sono, tra le varie cose: uno scotografo, considerato progenitore dei dispostitivi Enigma e Hageline, inventato verso il 1898 da Oscar Ducros, ufficiale di artiglieria; una colombaia (tecnica forse di uso non così antico se è vero che – notizia di questi giorni – la polizia indiana ha scagionato e liberato, dopo otto mesi di detenzione, un piccione sospettato di essere una spia cinese per via di due anelli legati alle zampe con su scritte parole che sembravano cinesi); un centralino da campo a dieci linee, di produzione italiana, utilizzato negli anni Trenta; alcuni dei tipici camuffamenti della microcamera tedesca Minox, occultabile in scatole di fiammiferi, finti accendisigari e fermacravatte; una ventiquattrore che nasconde al suo interno una mitragliatrice, il cui manico è il grilletto, che qui però si dubita sia mai stata usata sul campo per i problemi di rinculo.

Cose che fanno pensare a James Bond, che qui non abbiamo incontrato. Forse perché al riparo. O perché in missione. O, più probabilmente, perché il mito serve a difendere meglio il segreto. Ma perfino Sir Alex Younger, il più longevo capo del SIS, cioè la “casa” del personaggio inventato da Ian Fleming, ha dovuto riconoscere nel 2016 che un tizio simile non verrebbe assunto: gli uomini dell’intelligence hanno “sempre rispetto della legge”.

Ma, dicevamo, coltivare implica conoscere e diffondere. Anche all’esterno. Forte Braschi non è più il forte mimetico coperto da vegetazione tale da disorientare perfino chi ci lavorava nell’Ottocento. Oggi, anche per le misure di sicurezza, le strumentazioni installate e le evoluzioni tecnologiche (basti pensare a Google Maps), è ben visibile a tutti. È caduta la barba, non finta ma verde. E così, il forte va aperto al pubblico, a partire dalle scuole. È il paradosso a cui ha fatto riferimento Richard Moore a fine 2021, nel suo primo intervento pubblicato da capo del SIS: “Per rimanere segreti dovremo essere più aperti”. Ciò è ancor più evidente in un mondo sempre più complesso, plasmato dalle tecnologie emergenti e segnato da una minaccia che è “fluida, multidimensionale, asimmetrica e ibrida” (come l’ha definita recentemente Elisabetta Belloni, direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, cioè l’organismo che coordina l’attività dell’AISE e dell’altra agenzia, l’AISI, Agenzia informazioni e sicurezza interna).

Perché segreto e mistero non sono la stessa cosa. Un’annotazione che può sembra banale ma non lo è, specie in un Paese in cui “servizi deviati” rimane un’espressione di culto nonostante quelle vicende risalgano a mezzo secolo fa.

A proposito di mistero. Prima di congedarci chiediamo se c’è un modo più veloce per raggiungere il centro. L’allusione viene subito colta. Dagli anni Settanta gira la voce di un tunnel in grado di collegare i palazzi romani del potere. La faccenda è stata oggetto anche di un’interrogazione parlamentare negli anni Novanta. Capita, ci dicono, che i lavori per l’acquedotto alimentino il mistero. Che per sopravvivere ha bisogno di auto-alimentarsi. A differenza del segreto.

 

(Foto di copertina di Gabriele Carrer)

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