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Predatori nelle Terre di Simba, la caccia grossa e l’espulsione dei Masai in Tanzania

Di Marco Mayer e Valeria Fargion

Espulsione Masai in Tanzania per riserve caccia Vip. Italia ed Europa sono chiamate a contrastare l’approccio predatorio e sostenere comunità indigene africane

In Tanzania dal 2009 ad oggi nelle terre di Simba (il Re Leone) più di 150.000 Masai sono stati espulsi dal loro territorio per creare lussuose riserve di caccia grossa destinate a VIP e oligarchi di mezzo mondo (arabi, russi,  americani, in primis).

Tour operator multinazionali mettono a disposizione della loro clientela lodge a 5 stelle, elicotteri e aeroporti privati. In questi airfield delle foreste africane passa di tutto e i gestori dei voli non gradiscono che i Masai possano monitorare le loro attività.

Spostare persone e villaggi è talora necessario per realizzare infrastrutture destinate al bene comune, per esempio per la creazione di bacini idroelettrici. Ma sradicare intere comunità dalle proprie montagne (e trasferirle a 700/800 km  di distanza sulla costa dell’Oceano Indiano) per soddisfare il divertimento di una ristretta élite di cacciatori miliardari appare politicamente e moralmente inaccettabile.

La cacciata delle comunità Masai dalle loro terre in Tanzania  è uno dei tanti esempi dello “approccio predatorio verso l’Africa” criticato più volte da Giorgia Meloni nell’ambito della presidenza italiana del G7. Nel novembre 2023 la Corte di appello della Tanzania ha emesso per la prima volta una  sentenza favorevole alle proteste delle comunità Masai e questo è un elemento positivo.

Tuttavia si tratta solo  di una prima tappa per una vicenda politica e giudiziaria che si trascina da tre decenni e che si protrarrà per lungo tempo ancora. L’Italia, volendo, potrebbe dare un contributo positivo sulla scia della  posizione assunta recentemente dal Parlamento europeo.

La storia che stiamo raccontando e su cui abbiamo potuto confrontarci con alcuni capi villaggio Masai nel distretto di Ngorongoro riproduce la stessa logica che in Africa ha caratterizzato l’intervento delle multinazionali agroalimentari. Queste ultime in moltissimi Paesi hanno  sconvolto gli ecosistemi locali ed espulso le popolazioni per realizzare coltivazioni estensive.  L’argomento richiederebbe una trattazione ben più ampia di quanto è possibile fare in questo articolo, ma vorremmo proporre almeno quattro riflessioni.

La prima è che è miope contrapporre — come fanno  gli ambientalisti più ottusi — la tutela della natura alla presenza di insediamenti umani che hanno una tradizione ed una cultura secolare di conservazione  dell’ambiente e convivenza con la fauna selvatica.

La seconda riguarda la tutela di tutte le minoranze in Africa. I diritti umani non possono essere ridotti — come la disinformazione russa vorrebbe accreditare — ad un aspetto della propaganda occidentale. 

La terza riguarda la necessità di mettere definitivamente in soffitta i doppi standard che hanno caratterizzato l’approccio europeo all’Africa e che gli africani non sono più disposti ad accettare. Per impostare su basi  diverse e più produttive il rapporto tra i due continenti è indispensabile la coerenza tra fatti e parole. Se come sostiene Giorgia Meloni l’approccio non deve essere predatorio, le politiche di game hunting e le conseguenti misure di espulsione e resettlement di decine di migliaia di persone  meritano di essere  contrastate, anche se promosse da paesi arabi amici.

La quarta è che si è aperta una inedita finestra di opportunità per l’ Italia e per l’Europa. Al di là della narrativa demagogica sul Global South e della presunta  unità di intenti dei Brics, l’Africa sta sperimentato sulla propria pelle l’ approccio predatorio di Cina, Russia e Iran,  tipico del colonialismo e post-colonialismo europeo. Possiamo imboccare una strada diversa. Se non ora quando? 

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