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La Cina promette apertura alle aziende straniere. Lo farà?

Supply chain, Xi predica unità ma impone limiti. E la Cina attacca l’Europa

Pechino sta cercando di ripristinare “fiducia e tranquillità” per chi vuole portare investimenti nel Paese dopo che alcune strette hanno alimentato i timori verso le politiche di Xi. Lo farà davvero o sta offrendo una sponda a chi in Occidente si batte contro politiche di riduzione del rischio geopolitico?

Il derisking funziona? Sembrano dimostrarlo le parole di Guo Tingting, viceministro cinese del Commercio, China Development Forum di Pechino: “La Cina garantirà pienamente il trattamento nazionale alle aziende straniere, in modo che un maggior numero di aziende straniere possa investire in Cina con fiducia e tranquillità”. L’impegno a trattare le aziende straniere allo stesso modo di quelle nazionali, ovvero in linea con gli impegni dell’Organizzazione mondiale del commercio, è un tentativo di attrarre più investimenti, cooperazione e competenze straniere in un momento complesso per la Cina, che sta cercando di aggiornare e rafforzare le sue catene industriali. Le parole di Guo sono arrivato dopo quelle del premier Li Qiang, che ieri aveva sottolineato la volontà di Pechino di continuare ad accogliere gli investimenti delle imprese di tutto il mondo.

Per anni, come osserva l’agenzia Reuters, le imprese occidentali hanno lamentato una disparità di accesso in Cina, questione che blocca da quattro anni l’accordo sugli investimenti con l’Unione europea. Inoltre, i governi occidentali hanno espresso preoccupazione per la “coercizione economica” e le aziende hanno preso in considerazione la possibilità di limitare il rischio (derisking) per le catene di approvvigionamento e le operazioni, portandole lontano dalla Cina.

I suoi leader, diplomatici e media, assieme ai commentatori amici, ripudiano termini come derisking, decoupling, reshoring e friendshoring utilizzati dai governi occidentali per descrivere le politiche di mitigazione del rischio di dipendenze strategiche, se non addirittura di disaccoppiamento in alcuni settori, alla luce delle vulnerabilità palesate da eventi come la pandemia Covid-19, la guerra in Ucraina dopo l’invasione russa, il conflitto a Gaza tra Israele e Hamas e le tensioni nel Mar Rosso.

Nei fatti, però, è esattamente ciò che la Cina di Xi Jinping, segretario del Partito comunista cinese, sta facendo da un decennio e che prende il nome di xinchuang, o innovazione delle applicazioni informatiche, una sorta di autarchia tecnologica. Rientra in questi sforzi la decisione di rimuovere i microprocessori di Intel e Amd, società americane, da computer e server governativi per sostituirli con tecnologica.

Ma non solo: l’introduzione di una legge più ampia contro lo spionaggio, i divieti di espatrio e le retate contro le società di consulenza e di due diligence hanno frenato gli afflussi di fondi esteri. L’anno scorso gli investimenti diretti esteri in entrata hanno subito una contrazione dell’8%. Anche le tensioni geopolitiche, soprattutto quelle con gli Stati Uniti su una serie di questioni, in particolare tecnologiche, hanno pesato sul sentimento degli investitori.

Rimane da capire se questa “concessione” è reale o simulata, cioè utile soltanto a offrire una sponda a chi in Occidente si batte contro il derisking occidentale dalla Cina per mettere pressione sui governi, ottenere l’allentamento della pressione e poi rimangiarsi la promessa.



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