C’è un handicap culturale che sembra insormontabile. Voucher Italia Digitale e Formazione 4.0, i due crediti di imposta per la formazione digitale, non sono andati incontro alle attese. Resta il dubbio se il sistema-Paese sia davvero in grado di percepire il rischio che l’Ai ci sorpassi senza tanta fatica. Il commento di Davide Conforti, cofounder Osservatorio sulla formazione continua
Come sta la formazione aziendale in Italia? È questa la semplice domanda che ci siamo chiesti noi dell’“Osservatorio sulla formazione continua”, alla luce di una narrazione spesso troppo ottimistica rispetto alla realtà. Infatti, dai dati raccolti negli ultimi nove mesi, su un campione di mezzo milione di utenti, sono emerse criticità sia sul versante delle imprese, sia nell’ambito dei fruitori.
Per le prime partiamo dal paradosso per cui se da un lato il 62% dei ceo italiani (fonte, Forbes) dà all’education il ruolo di must have per la crescita dell’azienda, dall’altro lato alla voce formazione è destinato solo l’1,9% del costo del personale. In numeri assoluti, sono circa 780 euro all’anno per tutta la formazione di un lavoratore. A fronte di un costo medio complessivo poco superiore ai 41mila euro. Volendo fare un confronto con altre unit aziendali, la formazione è pari allo 0,6% dei ricavi aziendali, contro il 3% destinato al Marketing. Per le imprese italiane, l’aggiornamento professionale vale un terzo rispetto alle controparti tedesche e francesi.
Lo scenario è altrettanto fosco dalla parte dei lavoratori. Un lifelong learner – quindi una persona mossa da curiosità e ambizione, che volontariamente cerca corsi di formazione – effettua in media una, al massimo due ricerche mensili di attività finalizzate al proprio aggiornamento e al miglioramento professionale. Nel dettaglio, il 47% dei learner interpellati ha indicato Excel come contenuto da approfondire nell’ambito della formazione tecnologica. Il 38% afferma di dover migliorare l’inglese. Mentre, sul fronte delle skill relative allo smart working, l’apprendimento di Microsoft Teams resta essenziale per il 28% degli utenti. Competenze professionali di base, quindi, che possono fare ben poco per calmare l’ansia diffusa dell’Intelligenza artificiale che potrebbe decimare l’occupazione.
C’è una ragione di fondo che accomuna questi due fattori. Nonostante l’entusiasmo, la cultura della formazione in Italia non riesce ad attecchire. Lo dimostra il fatto che, il più delle volte, si è alla caccia di contenuti veloci (massimo 10 minuti), pratici e fruibili durante il tragitto casa-lavoro, oppure nella pausa pranzo, quindi non nelle situazioni più consone allo studio. È una scelta del lavoratore, ma anche un invito del datore di lavoro. In ufficio si fa altro, si lavora appunto.
Ma non dimentichiamoci il sovraccarico formativo. In un’abbondanza di servizi, provenienti da più provider, gli utenti sono disorientati. Tant’è che l’80% delle fruizioni deriva da un misero 10-11% del totale titoli formativi. Questo significa che solo una piccola parte dei contenuti acquistati dalle aziende viene effettivamente sfruttata dalla popolazione aziendale.
Facendo una simulazione, siamo riusciti a stimare in 2 milioni di euro che un’azienda di medio-grande dimensione deve affrontare a seguito di politiche di upskilling/reskilling fallimentari. Supponiamo di avere un’impresa di 500 persone, con una perdita di figure qualificate (churn) dell’8% annua. Abbiamo calcolato che i costi affrontati, per le agenzie di head hunting e mancata produttività, e tenendo conto del tempo medio per l’assunzione di una nuova persona (2,5 mesi), è di 2 milioni di euro in un anno.
Al contrario, grazie a iniziative di sviluppo professionale, è possibile mitigare il churn di almeno il 10%. Con un risparmio di 200 mila euro. Confrontando il costo medio di un piano di upskilling su una popolazione di circa mille persone, il Roi è pari a 3-6 volte l’investimento iniziale, dimostrando che la formazione continua è non solo una spesa necessaria, ma un investimento strategico che si ripaga ampiamente già nel primo anno.
L’effetto positivo della formazione richiede, però, un approccio strategico. È necessario aver chiare quali siano le competenze critiche e gli skill gap su cui intervenire.
Tuttavia, come dicevamo all’inizio, c’è un handicap culturale che sembra insormontabile. Voucher Italia Digitale e Formazione 4.0, i due crediti di imposta per la formazione digitale, non sono andati incontro alle attese. Le forze produttive non ne hanno percepito l’importanza. Era ovvio che non venissero rinnovati. Resta allora il dubbio se il sistema-Paese sia davvero grado di percepire il rischio che l’Ai ci sorpassi senza tanta fatica.