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La febbre elettorale condiziona anche le politiche di sicurezza. Scrive De Tomaso

L’importanza di accorpare le date del voto: oltre a contrastare gli interventi demagogici e clientelari in economia, si agevola la decisione su problemi decisiva per la tenuta delle nostre liberà democratiche

La febbre elettorale provoca la febbre demagogica. E clientelare. Ne sanno qualcosa i conti pubblici, stressati da continue elargizioni a destra e a manca pur di soddisfare le pretese (leggi: pasti gratis) avanzate da questo e quello. Ma la febbre elettorale provoca effetti collaterali anche nella politica estera, specie nei momenti di maggiore tensione tra gli Stati. Sia chiaro: la democrazia è una conquista da salvare fino all’estremo sacrificio, ma il susseguirsi di elezioni, a cadenza annuale o addirittura mensile, non aiuta i governi (e anche le opposizioni) a prendere decisioni improntate all’interesse generale, proiettate sull’arco di una legislatura. Viceversa, il susseguirsi vorticoso di chiamate alle urne, ora per le regionali, ora per le europee, ora per le nazionali, ora per singoli Comuni, non favorisce la chiarezza nelle scelte, tanto meno agevola il varo di politiche a lunga scadenza, destinate ad essere giudicate dagli elettori al termine di una legislatura.

L’indecisione strutturale, causata da un votificio permanente, riguarda anche la politica estera. Non solo in Italia. Quanto il calcolo elettorale immediato incide, in ogni Stato libero, sull’atteggiamento da assumere in merito alla guerra tra Russia e Ucraina? Tantissimo. Basti pensare alla posizione americana, al Fattore Trump che condiziona la presidenza Biden e l’attività del Congresso Usa. Basti pensare alla linea dei Paesi europei, condizionata assai dai sondaggi su tutte le votazioni in calendario, e quest’ultime si rincorrono a un ritmo sempre più frenetico, forse accettabile nei periodi di calma, ma assai pericoloso nelle fasi di grande turbolenza internazionale.

Il leader russo Vladimir Putin non ha bisogno di calcare la mano per vincere la guerra contro l’Ucraina. Primo, perché l’opinione pubblica occidentale, in larga parte, non considera la risposta militare alla stregua di una possibile opzione sul tavolo. Due, perché tutti i governi occidentali, proprio perché figli della volontà prevalente nelle popolazioni, si guardano bene dal prendere posizioni che possano ignorare l’opinione della gente comune e dei settori intellettuali più impegnati sul fronte pacifista. Terzo, perché, obiettivamente, la paura di uno scontro atomico, che culminerebbe in un mutuo suicidio dei contendenti, condiziona le scelte dei governi più responsabili, ossia dei governi democratici.

E però la sicurezza non è un argomento che possa essere rimosso solo perché riteniamo uno spreco di denaro, o una molla per ulteriori gravi conflitti, il proposito di destinare uomini e risorse alle politiche di difesa nazionale ed europea. La sicurezza è un tema, un obiettivo che si impone da sé, indipendentemente dalla nostra volontà. A meno che la rinuncia a difendere la libertà per sposare la politica della resa dovessero rappresentare la visione condivisa, il nuovo patto costituzionale di un’intera comunità.

Oggi ricorre il 163º anniversario dell’unità nazionale. Sarebbe stato possibile raggiungere quel traguardo se i patrioti risorgimentali avessero escluso di dover fare uso delle armi per raggiungere l’obiettivo prefissato? Si obietta: oggi, è diverso, oggi l’atomica rimette tutto in discussione, è in ballo la sorte dell’umanità. Giusto, giustissimo. Ma questa considerazione non dovrebbe indurre gli Stati liberi a rinunciare al proprio scudo militare, meglio se in collaborazione con gli Stati amici, pena la fine dell’indipendenza e della stessa democrazia.

I dittatori sono sempre al corrente di tutto quello che serpeggia nell’opinione pubblica occidentale, che essi spesso indirizzano con sapienti campagne di comunicazione. Il più delle volte non incontrano resistenze, dal momento che la stessa idea di sicurezza, in Occidente, viene giudicata incompatibile con l’idea di pace. Eppure non ci potrebbe essere pace senza sicurezza, a meno che non si ritenga accettabile la prospettiva di finire asserviti al despota di turno. Neppure la sicurezza intesa come strumento di dissuasione verso i malintenzionati trova facile spazio nel confronto tra opinioni, in Europa. E però una democrazia indifesa è una democrazia che vola senza paracadute.

Finora provvedeva l’America a garantire la sicurezza dell’Europa occidentale. Ma gli Usa, oggi, sono alle prese con mille problemi interni, a dispetto di dati economici tutt’altro che insoddisfacenti. Non hanno intenzione di continuare a sobbarcarsi la protezione dei Paesi amici. Ergo, bisogna decidersi, in Europa: prepararsi a difendersi, e finanziarsi in tal senso, o accettare quella che un tempo si definiva finlandizzazione e che, di fatto, corrisponde a una condizione di sovranità limitata.

Purtroppo, e torniamo al discorso introdotto all’inizio, il tourbillon elettorale che caratterizza l’intera Europa e l’Italia in particolare, contribuisce a congelare le decisioni e a rimandare a tempo indeterminato scelte strategiche che richiederebbero la massima serietà e tempestività.

Proposta. Anche per queste ragioni di politica estera, non soltanto per i motivi legati al buongoverno dell’economia, sarebbe opportuno prendere in considerazione una misura assai più urgente di qualsiasi modifica costituzionale: stabilire l’election day per tutte i livelli territoriali di conta nell’urna. C’è sempre un appuntamento elettorale, perfino il più piccolo test locale, che assume una valenza, una posta in gioco nazionale da ultima spiaggia. Figuriamoci come e quanto questa anomalia incide nelle decisioni sulla difesa e sulla sicurezza. L’election day avrebbe il pregio di preservare i governi dall’egemonia, dall’ingerenza dei sondaggi e dalle eventuali ricadute elettorali determinate da atti e provvedimenti di portata superiore, tra cui le politiche di difesa e sicurezza.

Tutto si tiene, politica, economia, difesa, sicurezza. La tipologia e la calendarizzazione del voto popolare non sono variabili indipendenti. Tutt’altro. Sono infrastrutture immateriali che condizionano gli interventi in tutti i settori. Forse è giunta l’ora di affrontare la questione, anche nel ricordo di un pensatore al di sopra di ogni sospetto, qual era il filosofo Norberto Bobbio (1909-2004), secondo cui la libertà può svanire per deficit, ma anche per eccesso di democrazia. E quando la democrazia decade a scade a vertiginosa ritualità, il risultato è scontato nella sua paradossalità: pochissima partecipazione da parte dei cittadini, pochissimo coraggio e pochissima chiarezza da parte dei governanti.


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