La democrazia sfrutta le potenzialità delle tecnologie informatiche per rendere più efficace e inclusiva la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche. Se il primo decennio del secolo ci ha fatto sperare che il digitale connesso fosse lo spazio dove si sarebbe diffusa e rafforzata la democrazia liberale, la fine del secondo decennio ci ha iniziato a far temere per il futuro nello spazio digitale-computazionale. L’analisi di Paolo Benanti, professore straordinario della facoltà di Teologia presso la Pontificia università gregoriana e presidente della Commissione AI per l’informazione
Durante la Seconda guerra mondiale, per scopi bellici, furono sviluppati i primi computer: Colossus, creato a Bletchley Park nel Regno Unito e, negli Stati Uniti, l’Atanasoff-berry computer (Abc) e l’Eniac. Nell’immediato dopoguerra, a partire dagli anni 50, l’introduzione dei transistor al silicio ha permesso di creare computer più piccoli, veloci e affidabili mentre i circuiti integrati, apparsi negli anni 60, hanno ulteriormente ridotto le dimensioni e i costi, aumentando la funzionalità dei computer. Si inaugura così una stagione in cui la potenza computazionale si diffonde nella società. In quegli anni questa distribuzione viene confinata in mainframe.
Questo termine originariamente si riferiva ai grandi armadi, detti “main frames”, che contenevano i processori e le memorie dei primi computer. Sarà solo nel decennio successivo – negli anni 70, con l’avvento dei microprocessori – che questa potenza computazionale viene democratizzata e diffusa tra le persone. L’Olivetti programma 101, prodotto nel 1965, è stato uno dei primi esempi di personal computer. Tuttavia è la comparsa di una nuova corrente culturale, che possiamo definire (ci si perdoni il gioco di parole) come Bit generation, ad aver prodotto il profondo meccanismo di decentralizzazione dei decenni seguenti.
La rivoluzione tecnologica si è nutrita dal seme della controcultura californiana degli anni 60. Il centro di questo modo di vedere il computer e l’informatica è stato ed è la Silicon Valley, area compresa tra San Francisco e San José. È stato soprattutto l’ideale comunitario dei figli dei fiori, la loro indole libertaria, la voglia di allargare gli orizzonti e il disprezzo per l’autorità centralizzata a fare da asse portante per i fondamenti filosofici ed etici di Internet e dell’intera rivoluzione del personal computer.
La Rete si è avviata proprio verso il crepuscolo di quell’esperienza. A fianco del filone californiano esiste un’altra grande corrente, più fredda, che ha il suo ceppo identitario in una differente forma di disadattamento e di disagio: quella dei nerd. Il suo centro può essere visto a Seattle, dove ha sede la Microsoft (fondata da Bill Gates). La declinazione che ha mosso Gates e gli appartenenti a questo filone non si centra tanto sulla controcultura, ma sulla convinzione della centralità della tecnologia. Non solo per il futuro delle nostre società e il benessere delle persone, ma anche per la capacità di essere un veicolo diretto all’affermazione personale e al potere.
La fine di questo processo di democratizzazione si è avuta verso la fine del primo decennio del secolo con l’avvento dello smartphone. Nel momento in cui la potenza computazionale personale ha iniziato ad abitare le nostre tasche, ha iniziato anche a sottrarci una certa autonomia: lo smartphone ha bisogno di un sottostato invisibile e fondamentale – la Rete – che ne garantisca l’operatività e che nutra il potere computazionale tascabile che abbiamo, datificando le nostre esistenze personali.
Di fatto, lo smartphone ha cominciato a interporsi in maniera sempre più massiccia tra noi e le cose che facciamo ogni giorno, riconfigurando – in termini di transazione digitale – la maggior parte degli atti che compongono la nostra quotidianità. Ma se la nostra esistenza e la nostra capacità di agire nello spazio pubblico si è riconfigurata in forma digitale, il nostro diritto e potere di cittadinanza è divenuto, di fatto, computazionale. Oggi le nostre esistenze democratiche sono esistenze computazionali. La democrazia, divenuta computazionale, sfrutta anch’essa le potenzialità delle tecnologie informatiche per rendere più efficace e inclusiva la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche.
Tuttavia, se il primo decennio del secolo si è concluso con le primavere arabe, facendoci sperare che il digitale connesso fosse lo spazio dove si sarebbe diffusa e rafforzata la democrazia liberale, la fine del secondo decennio, con le rivolte di Capitol Hill, ci ha iniziato a far temere per il futuro della democrazia nello spazio digitale-computazionale. L’avvento delle intelligenze artificiali sta di nuovo cambiando l’orizzonte.
I servizi dell’IA sfumano il confine tra potere computazionale personale e potere centralizzato nel cloud: nell’usare i nostri telefoni non sappiamo quasi più cosa viene eseguito in locale e cosa no. Questa nuova forma di centralizzazione porta a centralizzare anche la capacità computazionale personale associata alla democrazia. La domanda da affrontare allora sarà come rendere democratico il potere centralizzato e dell’intelligenza artificiale evitando che la democrazia computazionale collassi in una oligarchia del cloud.
Analisi pubblicata sull’ultimo numero della rivista Formiche