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Globalizzazione e mercato, fonti di sviluppo o di conflittualità? Risponde il prof. Pasca di Magliano

L’unificazione dei processi decisionali, a livello mondiale, è stata tradita. Oggi si contano più di 50 conflitti nel pianeta. Conversazione con Roberto Pasca di Magliano, direttore della School of Financial Cooperation and Development SFIDE di UnitelmaSapienza

Globalizzazione tecnologica e libero mercato sembravano, fino a pochi anni fa, le ricette vincenti non solo di un nuovo sviluppo economico e sociale mondiale, ma anche di attenuazioni delle conflittualità tra blocchi opposti. La globalizzazione tecnologia appariva la via maestra per unificare i processi decisionali a livello mondiale e spingere ad una crescente interdipendenza tra Paesi di culture e tradizioni diverse. Cosa è successo dopo? Alla luce dei numerosi conflitti (se ne contano almeno più di 50 tra grandi e piccoli conflitti regionali), oggi, sul nostro pianeta, abbiamo intervistato Roberto Pasca di Magliano, direttore della School of Financial Cooperation and Development SFIDE di UnitelmaSapienza.

L’impressionate sviluppo e la crescente diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno spianato la strada alla crescita degli scambi internazionali arricchendo anche Paesi più o meno dotati di capitale umano. Questa grande rivoluzione nei rapporti tra Stati è stata oggi tradita?

La coesione mondiale sembrava muoversi lungo un percorso virtuoso ben delineato, consentendo fino a pochi anni orsono alle democrazie liberali di convivere con tanti e diversi sistemi autoritari scambiandosi favori ma non andando mai oltre le minacce. Così non è stato. Oggi il confronto è tra chi fa della libertà il proprio simbolo di civiltà e progresso e chi lo nega, lo calpesta. E ciò anche se entrambi i sistemi usano tecnologie avanzate e beneficiano del libero mercato. Con un’impressionante tendenza crescente, si sono manifestati maggiori effetti negativi, quali la crescita di conflittualità per ogni dove, da un lato con la proliferazione di eventi bellici, colpi di Stato, attentati e dall’altro un aumento delle diseguaglianze e dell’emarginazione, specie nei paesi del Sud del mondo.

Attualmente, nessun continente è estraneo a conflitti armati e violenze. Le guerre in corso sarebbero 59, un numero che corrisponderebbe al livello più alto dal 1945. E si prospettano nuovi fronti caldi, in Kosovo, Myanmar, Niger, Sudan e Taiwan. Quale la ragione principale delle crescenti conflittualità?

Come avvenne decenni orsono per l’energia nucleare, anche le più sofisticate tecnologie, ancorché inventate in un Paese high-tech, diventano preda anche di altri Paesi meno avanzati ma dotati di professionalità in grado di svilupparle. La diffusione dell’economia di mercato, seguita alla rapida polverizzazione dei sistemi di economia pianificata, ha provocato ovunque nel mondo la crescita della ricchezza, specie di quella finanziaria che si stima raggiunga circa 8 volte quella dell’economia reale. Il desiderio dei Paesi avanzati di mantenere la supremazia di cui hanno goduto finora viene contrastata sempre più dai Paesi emergenti, spesso detentori di materie prime critiche. I Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) intendono annettere altri emergenti (Arabia Saudita, Argentina, Iran, Egitto, Etiopia, UAE) per accrescere la loro rilevanza economica. Già il Pil degli attuali Brics si muove lungo una tendenza crescente superando quella dei G7.

Ci si può avvantaggiare dei benefici della tecnologia e del mercato senza dover contestualmente ammodernare il sistema di governo né tanto meno muoversi verso la democrazia?

Sì. La tecnologia è neutrale, il mercato è cinico. Entrambi si adattano ai più disparati sistemi politici. Tesi questa che ha trovato via via evidenza nella coesistenza del progresso tecnologico e del libero mercato con dittature ed autocrazie alimentate da oligarchi e democrazie cosiddette illiberali. Se quindi tecnologie e mercato riescono a convivere con sistemi di governo profondamente diversi, l’ordine mondiale, la pace, il contrasto alle tante guerre che si diffondono nel pianeta, e spesso provocate da armate mercenarie, non possono contrastarsi con iniziative diplomatiche tradizionali orientate alla ricerca di accordi o di trattati di pace ma con compromessi basati sul “cessate il fuoco”, ossia sulla complessa ricerca di tregue armate o di situazioni di non-belligeranza sulla scia della divisione tra le due Coree.

Quali gli aspetti principali che avvantaggino di fatto i regimi autoritari?

Le dittature/autocrazie appaiono in realtà più forti rispetto alle democrazie perché possono contare su una maggiore stabilità nel tempo del sistema di governo. Inoltre, rispetto alle democrazie avanzate, traggono benefici in termini di consolidamento del potere politico, si avvantaggiano delle estreme arretratezze culturali delle popolazioni e spesso abusano delle credenze religiose per piegarle ai più biechi interessi delle classi politiche dominanti. Per questi motivi non sono disposte a dirimere i conflitti con accordi di pace egualitari ma possono essere costrette solo ad accettare compromessi.

Non le pare troppo pessimistica questa visione?

Sì, forse anche riduttiva, ma è l’unica praticabile quando il confronto si polarizza tra democrazie da un lato e dittature o autocrazie dall’altro. E questo perché i valori della democrazia, laddove storicamente consolidati, sono irrinunciabili e non certo scambiabili con ipotetici vantaggi economici o politici proprio perché l’esperienza mostra l’inconsistenza o la fragilità di accordi stipulati con regimi autoritari che coltivano i disvalori e combattono ogni forma di libertà. Tuttavia, non si può negare che le democrazie sono più fragili rispetto ai sistemi autoritari perché sottoposte al giudizio dei cittadini sul loro operato e intrinsecamente più deboli nell’azione di governo perché periodicamente incalzate dalla ricerca del consenso. Il dialogo tra Stato e mercato, auspicato dai keynesiani per evitare le crisi e far crescere il benessere, non riesce più a trovare una sponda in istituzioni democratiche stabili e autorevoli. E questo perché la globalizzazione tecnologica, i cui benefici furono scoperti da Joseph Schumpeter più di un secolo fa, se accompagnata dal libero mercato tende ad accrescere diseguaglianze e creare nuove povertà che scoraggiano la partecipazione della popolazione alle istituzioni di rappresentanza e di governo.

La disuguaglianza dei redditi nei paesi dell’Ocse cosa ci racconta?

La disuguaglianza dei redditi nei Paesi dell’Ocse ha raggiunto il livello più alto dell’ultimo mezzo secolo. In questi Paesi, il reddito medio del 10% più ricco della popolazione è circa nove volte quello del 10% più povero, salendo rispetto alle sette volte di 25 anni fa. Nel nuovo contesto mondiale le istituzioni democratiche devono necessariamente ridurre diseguaglianze e povertà se vogliono rafforzare i propri valori liberali e arginare lo strapotere dei regimi autoritari.



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