L’Intelligenza Artificiale non può essere né esaltata in modo acritico a favore di una presunta “perfezione digitale”, né liquidata con la denuncia di cataclismi culturali, morali ed etici che scaraventerebbero la nostra specie in un nuovo oscurantismo. L’analisi di Alessio Butti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’Innovazione, pubblicata sull’ultimo numero della rivista Formiche
L’intelligenza artificiale è oggi al centro dell’attenzione generale internazionale. È un tema mainstream e come tale rischia di esprimere punti di vista anche superficiali, con opinioni o finte certezze che inevitabilmente distraggono dai temi cruciali oggi sul tappeto. Cercherò di spiegare perché molto di quanto si sente sull’intelligenza artificiale è infondato, attraverso due considerazioni.
La prima riguarda il ruolo della tecnologia. Va infatti considerato che nel corso dei millenni il mondo è cresciuto potendo agire su tre leve: la spinta demografica, lo sfruttamento delle risorse naturali e lo sviluppo della tecnologia. Mentre le prime due hanno controindicazioni in qualche caso anche pesanti, la tecnologia è l’unica leva che ci consente, per dirla con uno slogan, di “fare di più con meno”, ovvero di avere una maggiore efficienza produttiva con minori costi. Non a caso l’intera storia della civiltà umana è stata sempre segnata da una evoluzione tecnologica senza fine che ne ha accompagnato la crescita e che ha spesso avuto dei picchi imprevisti.
Così è stato nella rivoluzione industriale e così è con la nuova frontiera dell’intelligenza artificiale. Per questa ragione l’IA non può essere né esaltata in modo acritico a favore di una presunta “perfezione digitale”, né liquidata con la denuncia di cataclismi culturali, morali ed etici che scaraventerebbero la nostra specie in un nuovo oscurantismo. Queste dispute fatte nel XXI secolo richiamano inevitabilmente l’antagonismo tra apocalittici e integrati e sono molto simili a quelle che hanno accompagnato l’evoluzione tecnologica dei secoli passati.
Certamente l’IA è capace di dispiegare una potenza di fuoco del tutto inimmaginabile appena sino a poco tempo fa. Mi riferisco innanzitutto alla sua capacità di affrontare problemi, trovare soluzioni, valutare variabili. Ma l’IA non è infallibile e commette errori, a volte rilevanti, in base alle modalità con cui è stata formata.
“L’IA può dare risposte perfette – come ci ricorda Federico Faggin – e senza errori, ma non decide e l’unica certezza è che non capisce ciò che dice”. E allora ciò che può preoccupare è semmai la mano umana che gestisce tali straordinarie capacità. Ecco perché servono le regole e questo apre la porta alla seconda considerazione. Secondo alcuni le regole europee sull’IA saranno inutili, perché lente e tardive rispetto alla veloce evoluzione della tecnologia.
Appare però difficile accettare in modo ideologico l’idea che l’IA sia così travolgente e dotata di uno sviluppo autonomo (tema che fiorisce soprattutto nelle sceneggiature distopiche di cinema e Tv) a tal punto da non poter esser governata con le regole decise da Parlamenti e governi. L’IA non ha natura divina e i servizi cui essa dà forma altro non sono che semplici prodotti nelle mani di soggetti (aziende, amministrazioni pubbliche o persone) che rispondono ancora alle nostre leggi, nonostante tutte le velocità dei mercati globali e la lentezza dei tempi della regolamentazione. Si sa che la produzione di leggi è più lenta della velocità della tecnologia, ma questo è risaputo.
Ed è per questo che si approvano leggi-quadro, forti nei principi, ma che consentono di modificare velocemente i piani applicativi. Ma dire che le regole non servono e sono inutili è un’istigazione al “liberi tutti”. Sarebbe la fine dello Stato di diritto. La contrapposizione strumentale tra regolamentazione e innovazione è pertanto equivoca. Le regole sono uno strumento di democrazia: servono a difendere l’interesse collettivo e ad assicurare corretta competizione di mercato per imprese e consumatori. Va semmai precisato che le buone regole sono nemiche della cattiva innovazione (quella che non aumenta il benessere collettivo), così come quelle cattive sono nemiche della buona innovazione, perché la imbrigliano senza fare per davvero l’interesse collettivo. Ed è questo l’obiettivo che dovrebbe orientare aziende e decisori.
Formiche 200