Il cartello a guida saudita decide di continuare a limitare la produzione fino a giugno, ma il mercato confida nelle condizioni macro e non reagisce con preoccupazione. Intanto sono diversi i Paesi che rompono i ranghi e pompano più di quanto convenuto: dilemmi in vista alla prossima riunione
Barra dritta per l’Opec+ con l’estensione dei tagli alle forniture fino alla metà dell’anno, decisa domenica. L’obiettivo del cartello di produttori di petrolio è invariato: limitare il surplus globale di greggio e assicurarsi che i prezzi rimangano almeno attorno agli 80 dollari al barile. Per farlo, le nazioni Opec+ sono pronte ad accettare limitazioni di circa due milioni di barili al giorni. Nella giornata di lunedì, però, gli indici si sono mossi ben poco: i mercati si aspettavano la mossa, ma sembra che non prevedano nemmeno grandi avvaloramenti per l’oro nero.
Al solito, è Riad il motore dietro alla decisione. Sarà proprio l’Arabia Saudita a rinunciare a uno dei due milioni di barili messi in conto dal cartello che guida. Una decisione in linea con l’analisi di Fitch Ratings, secondo cui il regno ha bisogno che il prezzo rimanga sopra i 90 dollari al barile per sostenere il suo massiccio piano di trasformazione economica, Vision 2030.
Anche l’altro grande giocatore all’interno dell’Opec+, la Russia, si muove per massimizzare gli introiti per finanziare la guerra contro l’Ucraina; Mosca ha fatto sapere che si concentrerà più sulla produzione e meno sull’esportazione. Seguendo questa linea “potrebbe contribuire a ridurre le scorte quando la domanda di petrolio aumenterà durante l’estate nell’emisfero settentrionale”, rileva Grant Smith di Bloomberg.
A remare contro la volontà dei due partner c’è una combinazione scoraggiante di fattori. Non da ultima, la riottosità degli altri membri Opec+, che sembrano sopportare a denti stretti la linea saudita. Negli scorsi mesi i tre principali produttori africani si sono rumorosamente opposti a questa linea, e l’Angola ha finito per chiamarsi fuori dall’alleanza a dicembre. L’ingresso del Brasile compensa (e ampiamente) l’uscita di Luanda, ma la decisione di continuare con i tagli continuerà a testare la pazienza dei membri che vorrebbero produrre di più.
A tal proposito, gli ultimi numeri di Reuters e Bloomberg indicano che la produzione Opec+ di febbraio è aumentata tra i 90.000 e i 110.000 barili al giorno. Pesa, e tanto, il riavvio del più grande giacimento libico dopo l’arresto di inizio anno; l’Iraq ha ridotto leggermente le forniture ma, insieme agli Emirati Arabi Uniti e al Kazakhstan, ha continuato a pompare ben oltre la quota fissata a inizio 2024. Questo anche perché il prezzo del barile non sembra risentire degli scossoni nell’area mediorientale, anche con le difficoltà di transito nel Mar Rosso per via della minaccia Houthi.
Gli analisti indicano altre ragioni per la relativa stabilità dei prezzi. Una è l’aumento della produzione nelle Americhe, con gli Stati Uniti nelle loro nuove vesti di maggiore potenza petrolifera mondiale e il Venezuela che sta esportando più greggio dopo la decisione di Washington di allentare la stretta delle sanzioni. L’altra sono le persistenti difficoltà economiche in Cina, e i conseguenti riflessi sulla domanda di petrolio. Sul lungo termine c’è la transizione ecologica, e con essa l’urgenza per i produttori di estrarre e vendere il greggio prima che venga rimpiazzato da alternative più verdi.
Nel confermare la decisione sui tagli, le fonti Opec+ hanno parlato di una marcia indietro “graduale” e “in base alle condizioni di mercato” dopo il secondo trimestre. Ma la prossima riunione, in agenda per il primo giugno a Vienna, potrebbe aumentare i grattacapi. Da parte sua, l’Agenzia internazionale per l’energia stima che il cartello potrebbe dover perseverare sulla linea dei tagli fino al 2025 per evitare un surplus di petrolio. Dipende anche da quanto aumenterà la domanda, l’unica condizione che consentirebbe ai Paesi Opec+ di rilanciare la produzione, e dalla cooperazione dei membri del cartello, che sembra tutto fuorché inossidabile.