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Sei woke e non lo sai? L’analisi di Laudadio

Con “cultura woke” o “dittatura woke” si va a colpire in modo indistinto l’eccesso del politicamente corretto, ma senza sforzarsi di tracciare una linea che divida il giusto dall’eccessivo. Quindi, ciascuno può usarla a suo piacimento, bollando come woke quello che vuole. L’analisi di Andrea Laudadio

Probabilmente ci conviene imparare a usare bene questo neologismo, perché nei prossimi mesi, complice la campagna elettorale americana, lo sentiremo spesso.

Il termine Woke nasce nella cultura Afro-english, significa letteralmente: “svegliato”, ma più propriamente lo dovremmo tradurre con “consapevole” o “ben informato”. In qualche modo fa riferimento alla “presa di coscienza” di problemi di giustizia sociale.

Woke irrompe nella cultura di massa sulle note neo-soul e R&B della canzone “Master Teacher” di Erykah Badu nell’album New Amerykah, dove assume la connotazione di attenzione alla discriminazione e all’ingiustizia razziale o sociale.

I più curiosi, possono andare su Google Books Ngram Viewer, un sistema che consente di scoprire l’utilizzo, negli anni, di un termine su tutti i libri censiti da Google. Scoprireste che dal 2008 il termine ha avuto una vera esplosione, complici i libri che hanno “Woke” proprio nel titolo. Come – ad esempio – quello di Titania McGrath, che si autodefinisce “una poetessa intersezionista radicale impegnata nel femminismo, nella giustizia sociale e nella protesta pacifica armata” e si identifica come non binaria, polirazziale ed ecosessuale. Il libro si apre con una citazione di Derek Jarman: “Dio è nero, ebreo e lesbica”. Potete risparmiarvi di leggere il libro, non è nulla di particolare, anche se su Amazon l’86% dei lettori l’ha recensito 4 o 5 stelle ed è stato tra i 100 libri più venduti.

L’aspetto più interessante è che Titania McGrath non esiste, è una invenzione del giornalista satirico nord-irlandese Andrew Doyle che ha anche creato un account Twitter (sospeso più volte per incitazione all’odio) di Titania, seguito da oltre 750mila follower.

Doyle si descrive come gay, di sinistra, sostenitore della Brexit e di Jeremy Corbyn, contrario alle politiche identitarie e soprattutto al politically correct. Doyle ha dichiarato di voler deridere la “cultura woke” perché “la maggior parte delle persone desidera disperatamente che questa cultura venga derisa”. Non pochi sono d’accordo. Nella recensione del libro, sul The Times, Doyle viene elogiato per aver compreso perfettamente il tono di rimprovero, ipocrita, intollerante e senza gioia della cultura woke.

Ed è così che da termine identitario, fortemente legato alla causa del politically correct, il termine woke cambia di senso e accezione e diventa negativo e spregiativo. Nel programma di Trump è un caposaldo: porre fine alla cultura woke. Dove dentro c’è un po’ di tutto, politicamente corretto, parità di genere, integrazione LGBTQ+…

Pochi giorni fa, abbiamo letto sui principali giornali la storia di L.T. una quarantaduenne italiana emigrata negli Usa che ha partecipato a un corso della Columbia University.

L.T., durante il corso, ha dovuto fare i conti con: proclami di impegno antirazzista, scuse generalizzate verso i neri per il razzismo di cui si è naturalmente portatori, precedenze ai neri nelle graduatorie e soprattutto le procedure di White Accountability (responsabilità bianca), sessioni collettive in cui si viene supportati a riconoscere le micro-aggressioni culturali verso i neri.

Troppo per la povera L.T. che nonostante si autodefinisca “progressista” trova anche lei tutto questo “un eccesso della cultura woke”.

Il tema politico è evidente. Non tutti vedono positivamente i progressi di integrazione delle minoranze e i successi dell’inclusione. Esiste una reazione, che pochi potevano immaginare così forte, rispetto al woke. La presa di coscienza sociale di bias, micro e macro-discriminazioni sta producendo una polarizzazione dell’opinione pubblica e non sono pochi quelli che bollano come eccessiva l’attenzione verso le minoranze.

La scelta del termine è vincente (forse purtroppo). Prendere una parola dal campo avversario, renderla ridicola e usarla come parola-contenitore per indicare quello che è “eccessivo”. Perché con le espressioni “cultura woke” o “dittatura woke” si va a colpire in modo indistinto l’eccesso del politicamente corretto, ma senza sforzarsi di tracciare una linea che divida il giusto dall’eccessivo. Quindi, ciascuno può usarla a suo piacimento, bollando come woke quello che vuole.

Il terzo bagno per le persone fluide? Woke! La schwa? Woke. Eliminare dal gioco Scarabeo le parole: “bufty”, “gammat” e “lubra”? Woke! Il gender pay gap? Woke! Il disclaimer che usa la Disney per avvisare che alcuni cartoni animati, essendo datati, contengono degli stereotipi etnici (ad esempio, gli Aristogatti)? Woke! La parità uomo/donna nelle attività genitoriali di cura? Woke!

Vedremo questo termine diffondersi nei dibattiti e nei talk show. Ci preserverà per un po’ solo l’incertezza su come si pronuncia correttamente, dopo, tutto o niente sarà woke!

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