Violenze e minacce, dirette o nei confronti dei familiari in patria, spingerebbero sempre più persone a rientrare. In dieci anni, segnalati 12.000 casi da oltre 120 Paesi e regioni
Ogni giorno i media cinesi, statali e locali, raccontano di persone che tornano in Cina su base volontaria, molti spinti dalla nostalgia per la madrepatria. Una narrazione che però appare opposta alla strategia cinese dell’approccio dei “mille granelli di sabbia” esempio fatto da Paul D. Moore, ex analista dell’Fbi, e citato nel libro “China Intelligence” del professor Antonio Teti edito da Rubbettino (il volume sarà presentato domani in Senato dall’autore assieme al professore Mario Caligiuri, all’ex Cia Robert Gorelick e all’ex direttore di Aise Alberto Manenti). “Se una spiaggia fosse un obiettivo, i russi manderebbero un sottomarino, gli uomini rana sbarcherebbero a riva nel buio della notte, raccoglierebbero diversi secchi di sabbia e li riporterebbero a Mosca. Gli Stati Uniti invierebbero satelliti e produrrebbero montagne di dati. I cinesi manderebbero un migliaio di turisti, ciascuno incaricato di raccogliere un solo granello di sabbia. Quando tornerebbero in Cina, verrebbe chiesto loro di scrollarsi di dosso gli asciugamani. E finirebbero per saperne di più sulla sabbia più di chiunque altro”.
Come si spiegano allora questi ritorni? Semplicemente, non sono volontari, bensì strumentali al controllo della diaspora e al contrasto al dissenso. I soggetti sono vittime di violenze e minacce, anche nei confronti dei propri familiari in Cina. Ne parla il report “Sulle tracce delle operazioni di rimpatrio forzato della Repubblica popolare cinese in tutto il mondo” diffuso oggi dalla ong spagnola Safeguard Defenders, secondo cui dal 2014 fino al 2023 la Cina è riuscita rimpatriare in maniera non volontaria 12.000 persone da oltre 120 Paesi e regioni. C’è un elenco di 283 vittime accertate. Tra queste, nel periodo tra il 2014 e il 2018, ci sono nove cittadini cinesi rifugiatisi in Italia ma costretti a rientrare con “operazioni di persuasione”. Queste possono essere pressioni (minacce e violenze) sia contro l’obiettivo sia contro i suoi familiari in patria.
“Dopo la fuga all’estero mi sentivo sempre a disagio e spesso soffrivo di insonnia”, avrebbe raccontato Zhu Lixin, che ha lasciato Roma dopo 27 anni nel 2018, quando è stato spinto a tornare in Cina per affrontare l’accusa di truffa con una strategia che toccava “sia le sue convinzioni politiche sia i suoi familiari”. “Ora che sono tornato nel mio Paese e mi sono arreso posso finalmente dormire sonni tranquilli”, avrebbe aggiunto.
Simili tecniche sono state adottate anche nel recente caso di una donna, ex amministratore delegato di una nota società cinese, che era ricercata in patria per presunti reati economici e su cui pendeva una richiesta di estradizione all’Italia: come raccontato da Formiche.net, tra il giugno e il dicembre 2021 la polizia cinese ha trattenuto, immotivatamente e senza neppure informare i parenti, il fratello per sei mesi e sottoposto a “trattamenti inumani e degradanti”. La richiesta di estradizione è stata negata un anno fa dalla Cassazione con una sentenza.