Quanti spunti di riflessione nel saggio “Libertà contro libertà”: un duello culturale tra Emanuele Felice e Alberto Mingardi sul rapporto tra Stato e società, tra interventismo pubblico e individualismo privato. La recensione di Giuseppe De Tomaso
Come sarebbe bello un mondo senza estremismi e senza autoritarismi. Come sarebbe bello un mondo segnato dall’illuminismo e non dal fanatismo. Come sarebbe funzionale una democrazia caratterizzata, in prevalenza, dal confronto tra quelli che una volta venivano classificati come lib-lib (liberali-liberisti) e come lib-lab (liberali-laburisti). Di sicuro se ne gioverebbe la libertà dei singoli e delle moltitudini, nonché il benessere generale. Anche perché, come sottolineava Luigi Einaudi (1874-1961), negli Stati stabili le somiglianze tra socialismo e liberalismo superano le dissomiglianze.
Costituisce un vero godimento dello spirito la lettura del saggio Libertà contro Libertà (sottotitolo: un duello sulla società aperta), edito da Il Mulino (250 pagine, 17 euro). Incrociano le armi del pensiero gli accademici Emanuele Felice e Alberto Mingardi: il primo liberalsocialista, il secondo liberale puro. Le biblioteche di riferimento politico-ideologiche dei due autori non sono identiche, sovrapponibili, anzi. Ma identica è la loro determinazione, la loro caparbietà nel battersi per la libertà, sia pure partendo da premesse difformi e puntando a obiettivi diversi. Del resto, cos’altro presuppone e persegue la lezione liberale se non la rimozione dell’unanimismo, l’opposizione al pensiero unico, dogmatico e totalizzante? Cos’altro distingue il liberalismo dal resto delle altre culture se non il principio della limitazione del potere, ora preceduto ora accompagnato dall’esigenza di mettere in discussione tutte le verità rivelate e tutte le vulgate modaiòle?
Il professor Felice fissa un punto di partenza: noi siamo felici cooperando con gli altri. Ma non tutti possono essere felici se persistono o aumentano le disuguaglianze sociali. Ergo, più che competere, bisogna cooperare, specie adesso che l’emergenza climatica richiede sforzi colossali. Il faro di Felice resta l’economista John Maynard Keynes (1883-1946), liberale progressista, principale teorico dell’intervento pubblico, mostro sacro assai scettico sulla pretesa infallibilità del mercato.
Il keynesismo di Felice mette in guardia dai poteri sempre più pervasivi dei nuovi monopoli (soprattutto tecnologici), dalle possibili conseguenze plutocratiche, dal sovranismo di dati e algoritmi, dalla supremazia della dimensione economica sulla tensione etica. A parere di Felice solo un nuovo liberalismo, cooperativo ed ecologico, può affrontare sul serio la più decisiva fra le prossime sfide: la sfida al cambiamento climatico. Ecco perché si rende necessario un nuovo ordine mondiale, fondato sulla tutela dei diritti umani. Ecco perché nella corsa a innovare, i brevetti devono essere sostituiti dai premi, proprio per evitare, sin dall’inizio, la formazione di rendite monopolistiche. Si tratta di scegliere, riassume Felice, tra la vecchia Atlantide di Platone, l’impero a occidente delle Colonne d’Ercole, che sapeva condurre le guerre ma è finito sommerso dalle acque; e la nuova Atlantide di Bacone, i cui abitanti vivono in pace, aperti al mondo, condividono la ricerca scientifica e si dedicano a migliorare le condizioni di vita di tutti.
Se Felice ritiene che l’intervento dello Stato nella vita economica di una comunità non pregiudica l’allargamento delle libertà, anzi, perché favorirebbe il miglioramento delle condizioni materiali di milioni di persone, il professor Mingardi teme invece che il protagonismo dello Stato (cioè dei suoi decisori) possa provocare conseguenze ancora più gravi e paradossali, tipo l’aumento delle disuguaglianze di potere tra i cittadini, disuguaglianze ben studiate da uno studioso liberale del calibro di Guglielmo Ferrero (1871-1942). E le disuguaglianze di potere sono più dolorose delle disuguaglianze economiche, anche perché vengono ignorate da chi rifugge dal peso della responsabilità nelle scelte, e giudica la libertà alla stregua di un’angoscia insopportabile.
La libertà è due volte borghese, ricorda Mingardi. Lo è perché è nata nei borghi. Lo è perché i borghesi l’hanno rivendicata per sé e per gli altri. Anche se esseri liberi spaventa, la libertà è il principale propellente del benessere. Se ne rendono conto gli stessi migranti che, non a caso, tendono a trasferirsi nelle nazioni più libere, anche laddove le disuguaglianze sono più marcate. Infatti. Non si trasloca verso gli Stati egualitari, ma verso i Paesi più ricchi e sviluppati.
Il vero liberale, sottolinea Mingardi, non chiede nulla al sovrano, vuole essere lasciato in pace. Non chiede nulla perché sa che la società “statale”, ossia la fascia dei detentori del potere, non è intellettualmente superiore alla popolazione governata, non foss’altro perché non possiede tutte le informazioni indispensabili per una decisione razionale e non foss’altro perché più il comando è spersonalizzato più liberale e democratica risulta una comunità umana.
La pianificazione, passo dopo passo, rischia di imporsi come nuova religione politica europea, ma un redivivo Friedrich von Hayek (1899-1992) ci rammenterebbe che non esiste controllo economico che non sia anche controllo politico. Chi decide cosa è importante? Quali strumenti di conoscenza possiede il pianificatore? Per caso costui è onnisciente? Non a caso, il Belpaese è una terra di tariffe, non di prezzi. Non a caso ignora la lezione impareggiabile che il romanziere economista Alessandro Manzoni (1785-1873) ha scolpito, in materia di rincari, nei suoi Promessi Sposi.
L’economia di mercato, sottolinea Mingardi, è una continua redistribuzione di ricchezza. La più efficace mai sperimentata finora. Il capitalismo è la produzione di massa per soddisfare i bisogni delle masse. Sarà pure imperfetta l’economia di mercato, ma produce novità, e poi non è vero che moltiplica le disuguaglianze. I numeri dicono che i divari di reddito sono stazionari negli Usa dove, per altro, i ricchi di 20 anni fa non sono gli stessi di oggi. Il turn over dell’agiatezza sta lì a testimoniarlo. E comunque, la produzione presenta connotati jazzistici, non segue uno spartito.
Morale. Più si è liberi, meno si è poveri. Oggi, rimarca Mingardi, consumiamo di più, ma inquiniamo di meno. Il che sfugge ai più. Così come sfugge la constatazione che non esistono soluzioni salvifiche ai problemi, ma solo scambi, mitigazioni dei danni, raffronti tra costi e benefìci, dal momento che anche i saperi degli esperti si rivelano sempre incompleti. A proposito. “Se potessi fare un dispetto ai miei concorrenti, li riempirei di esperti”, sosteneva il saggio Henry Ford (1863-1947), colui che mise l’America al volante.
Ripetiamo. Magari il bipolarismo italico si fondasse sul confronto scontro tra il liberalismo inclusivo di Felice e il liberalismo competitivo di Mingardi. Sarebbe tutto un altro mondo. Un’altra Italia. Un’altra Europa.