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L’inclusione che esclude. Perché non ci interroghiamo sulla classe sociale? Scrive Laudadio

La distanza tra le classi sociali sta diventando sempre più ampia. In particolare, è assente dal dibattito italiano “la classe sociale d’origine”. Eppure, numerosi studi hanno dimostrato che tale variabile ha un impatto significativo, tra i maggiori, sulle traiettorie di carriera. tra gli adolescenti americani cresce la preferenza per una società più egualitaria e più giusta. Mi piace questa speranza in un mondo così, dove la classe sociale non è il miglior predittore del destino di una persona. L’opinione di Laudadio

Cosa guadagna spazio e cosa lo perde nel dibattito sulle tematiche dell’inclusione e dei diritti civili? Mai come oggi, il tema della parità di genere è al centro del dibattito e, negli ultimi anni, hanno guadagnato molto spazio le tematiche Lgbtq+. In terza posizione, in crescita, il vasto tema delle disabilità e – a seguire – l’integrazione etnica e culturale.

Il 99% delle controversie sulle tematiche legate all’inclusione derivano dal modello “Big 8” concepito vent’anni fa da Deborah Plummer: orientamento sessuale, genere, nazionalità, età, etnia, disabilità mentale o fisica, religione e ruolo organizzativo.

Nelle aziende, la totalità delle azioni di intervento è su questi temi. Il nobile sforzo è quello di “neutralizzare” gli impatti negativi che queste dimensioni possono avere sulle traiettorie di carriera e sulle chance di occupazione. Se un’azienda non lo facesse, saremmo autorizzati a dire che – questa azienda – manifesta comportamenti discriminatori.

Ma, cosa manca in questo elenco? Mancano tante cose, una in particolare: il tema della “classe sociale”. È assente nel modello Big 8 e sembra definitivamente scomparso dal dibattito culturale. Forse abbiamo dato troppa retta a Margaret Thatcher, che riteneva che la classe sociale fosse “un concetto comunista” capace solo di “raggruppare le persone in fasce e metterle l’una contro l’altra”.

Sarà, ma è pur vero che, dopo il suo periodo di governo, il divario sociale è aumentato. Secondo Antony Manstead una delle ironie della società moderna è che – nonostante l’enfasi meritocratica ci abbia convinto che tutti possono ottenere ciò che vogliono se hanno abbastanza talento e propensione al sacrificio – la distanza tra le classi sociali sta diventando sempre più ampia.

In particolare, è assente dal dibattito italiano “la classe sociale d’origine”. Eppure, numerosi studi hanno dimostrato che tale variabile ha un impatto significativo, tra i maggiori, sulle traiettorie di carriera. Probabilmente è meno sentita perché, rispetto al razzismo e al sessismo, è meno prontamente identificabile come problema sociale. Sta di fatto che esiste una modesta consapevolezza sui temi del classismo.

D’altronde in tutti i Paesi occidentali le classi meno agiate continuano a sopravvalutare la mobilità sociale, considerando il proprio Paese più giusto di quanto sia realmente e, di conseguenza, come dicono molti studi, ad accettare più facilmente le discriminazioni sociali legate alla classe di appartenenza.

Secondo alcuni studi realizzati in UK la classe sociale d’origine genera un gap retributivo tra gli impiegati compreso tra l’8,6% e il 12,1% che arriva addirittura al 44% nella libera professione in ambito legale. Certo la Gran Bretagna non è l’Italia, le differenze sono tante, ma questi dati fanno riflettere.

È proprio difficile sfondare il tetto di cristallo della classe sociale. Il pay gap si mantiene anche per posizioni apicali e, sommandosi ad altre forme di discriminazione, ne amplifica gli effetti. Se la differenza retributiva è mediamente di circa 6.000 sterline, arriva a 10.000 se si aggiunge l’aspetto etnico e a 19.000 nel caso di donne. Nei ruoli dirigenziali c’è un rapporto 1 a 10 tra le classi sociali, con una evidentemente sottorappresentazione della classe sociale d’origine più bassa.

Su numeri simili, legati alle dimensioni Big 8, si grida allo scandalo. Eppure: avete sentito qualcuno sul tema della classe sociale d’origine?

Peraltro, alcune interessanti ricerche ci dicono che siamo bravissimi a valutare e identificare la classe sociale di un interlocutore. Sembra sia sufficiente ascoltare appena sette parole per stabilire, con buona precisione, la sua classe sociale.

Dal punto di vista psicologico la principale differenza tra classi sociali è il mindset, anche se dobbiamo sempre ricordarci che parliamo di singoli individui e che c’è molta differenza tra due persone anche nella stessa classe.

Gli appartenenti alla classe sociale meno agiata hanno un mindset – ci dicono le ricerche – “interdipendente” dal contesto. La loro attenzione è catturata dai vincoli e dalle minacce esterne, esprimono un minor senso di controllo personale, interpretano gli eventi in chiave situazionale (invece che disposizionale). In altre parole, tendono a spiegarsi i successi e gli insuccessi secondo aspetti esterni (il contesto, le relazioni sociali o il caso) anziché rintracciare le cause nelle loro capacità.

Avendo sperimentato condizioni di minor disponibilità di risorse tendono a pensare in termini di “scarsità” e si interrogano su cosa sia “realmente fattibile” anche quando ragionano sulle loro aspirazioni, quindi sognano “meno in grande”.

Sono più avversi al rischio e al debito, hanno una bassa percezione di autocontrollo e tendono a concentrarsi sul presente (anziché sul futuro), pianificano poco e con un maggiore senso di impotenza (a riprova, hanno un minore impegno nei confronti dei servizi di screening sanitario). Inoltre, sarebbero persone meno empatiche e meno competenti dal punto di vista relazionale ma avrebbero un maggior senso di autenticità, sarebbero più generose oltre che più corrette.

Le persone delle classi agiate avrebbero invece un mindset “indipendente”. Si percepiscono liberi, autonomi e autodiretti. La centratura, secondo le ricerche (soprattutto quelle nel perimetro anglosassone) è sul proprio solipsismo, sugli obiettivi personali e sulle motivazioni.

Per questi la formula del successo sarebbe il prodotto di talento e impegno personale. Per questo motivo chi appartiene alle élite trova che la disoccupazione sia una questione di scarso impegno ed essenzialmente una “colpa” della persona.

Le élite tendono a sottovalutare il peso del contesto nel mantenimento delle disuguaglianze sociali e hanno una opinione negativa dei sussidi statali come, ad esempio, il reddito di cittadinanza. La povertà, per loro, è una scelta. Ma sono invece proprio le élite ad avere i comportamenti meno rispettosi delle regole per trarne un vantaggio personale, con una maggiore disponibilità all’imbroglio per aumentare le possibilità, ad esempio, di vincere un premio.

È sconcertante che la scuola, pensata per distribuire in modo egualitario le opportunità, finisca per essere un amplificatore di differenze. Le istituzioni formative, di qualsiasi livello, tendono a prediligere il modello dell’indipendenza promuovendo il senso di esclusione delle classi meno agiate. Stili didattici più interdipendenti (ad esempio, i lavori di gruppo) aumentano il rendimento degli studenti delle classi basse, senza rappresentare una penalizzazione per le classi alte.

Gli insegnanti trattano in modo diverso gli studenti. Chi proviene da una classe sociale bassa è meno probabile che venga incoraggiato a impegnarsi in attività extracurriculari e a parlare in classe. Non bastasse, gli stereotipi, portano gli insegnanti a dare voti peggiori ai bambini appartenenti a classi meno agiate, persino quando hanno solo 7 anni di età!

Gli studenti di classi meno abbienti sono più preoccupati di prendere giudizi bassi e di essere giudicati negativamente. Tollerano meno le valutazioni frequenti che percepiscono come una minaccia, per questo si possono sentire fuori posto all’università.

Questa sensazione permarrebbe nel mondo del lavoro, sempre più pensato su modelli “indipendenti” e sui valori delle classi elevate. Secondo alcuni ricercatori, nelle inserzioni di lavoro le descrizioni del “candidato ideale” è costruita secondo il linguaggio delle élite e questo può rappresentare una barriera per coloro che appartengono a classi poco agiate.

Secondo alcuni l’ideologia neoliberista è stata talmente pervasiva che persino i partiti più a sinistra considerano ormai la povertà come una scelta. Anche le classi sociali più basse, ci dicono alcuni studi, si sono convinte di queste posizioni e sostengono un sistema sociale che li svantaggia materialmente. Secondo la teoria della “giustificazione del sistema”, chi soffre di più per un modello sociale è anche colui che è meno propenso a metterlo in discussione, sfidarlo o rifiutarlo.

Però tra gli adolescenti americani cresce la preferenza per una società più egualitaria e più giusta. Mi piace questa speranza in un mondo così, dove la classe sociale non è il miglior predittore del destino di una persona. Dove si possa diventare ciò che si sogna e dove non esista un tetto stereotipato ai sogni. Dove la scuola sia un livellatore sociale, dove a lavoro si guardi alla competenza e alla capacità. Non fatemi pensare, per favore, di essere un illuso.

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