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La mia architettura della libertà. Il racconto di Miglietta

Di Fulvio Caldarelli

Fernando Miglietta racconta la sua militanza intellettuale attraverso un diario e un carteggio inedito con Bruno Zevi, l’amico e speciale compagno di viaggio. Il suo impegno per un’architettura della libertà che si fa forma e spazio creativo del dissenso come luogo di incontro e dialogo delle culture

Un altro Diario Architettura e Libertà. Diariocinque Con Bruno Zevi, di Fernando Miglietta, prefazione di Massimiliano Fuksas, edito da Gangemi International, si aggiunge, dopo quelli Con Bruno Munari, Con Pierre Restany, Con Giulio Carlo Argan, Con Eugenio Carmi, a cui seguiranno quelli Con Achille Perilli, Con Gillo Dorfles, Con Paolo Portoghesi, Con Luca Maria Patella, Con Michelangelo Pistoletto, al progetto dell’Archivio Miglietta impegnato a documentare il percorso compiuto da Fernando Miglietta, architetto, artista, critico e teorico, insieme ad alcuni tra i maggiori protagonisti dell’arte, dell’architettura e della cultura italiana.

Il diario è stato presentato il 17 aprile presso la libreria Gangemi International a Roma in presenza dell’autore e degli architetti Orazio Carpensano, Massimiliano Fuksas e Franco Purini.

“Architettura e libertà” è un archivio divenuto negli anni laboratorio di documentazione e ricerca, un vero e proprio museo in progress di contributi originali, segni, disegni, progetti, scritti, carteggi, dialoghi, che raccontano pagine per molti aspetti inedite e a cui guardano con interesse molte istituzioni.

Un diario e un carteggio inedito, quasi quindici anni di scambi epistolari dal febbraio del 1979, con Bruno Zevi, amico e speciale compagno di viaggio, “militante per la libertà, grande storico e critico dell’architettura”, racconta l’impegno intellettuale e professionale di Fernando Miglietta per un’architettura della libertà che si fa forma e spazio creativo del dissenso come luogo di incontro e dialogo delle culture, temi al centro di una narrazione esistenziale e professionale avvincente e senza confini tra architettura, arte e critica.

Architetto Miglietta, dove guarda l’architettura della libertà?

La mia architettura della libertà, che i teorici hanno definito architettura plurale, architettura dell’interculturalità, guarda alle contaminazioni, alle azioni creative, all’immaginazione come capacità di guardare al futuro con un nuovo linguaggio infradisciplinare, fatto di saperi e codici diversi. Un’architettura che, mettendo a nudo le ragioni delle differenze, della complessità, e degli attraversamenti globali, è capace quindi di generare spazialità umane, e non artifici, quali veri e propri serbatoi di cultura e arte dei popoli.

Dunque, un’architettura profondamente umana, educativa che si impone come architettura del dialogo di differenti saperi specialistici, arte, architettura, psicologia, ecc. Obiettivo la genesi di una forma e una spazialità che rifiuta lo stile in quanto lo considera morte dell’arte, per ricercare, invece, la forma come entità e immagine emblematica di una cultura. L’architettura della libertà è, dunque, contro ogni deriva autoritaria, dogmatica ed accademica, contro la vulgata edificatoria che ha distrutto la bellezza delle nostre città. “Un’architettura eretica e sorridente”, così come la definì Bruno Zevi, che si impone per la sua poeticità nello scenario anonimo e tecnicistico dell’architettura italiana intriso sempre più di stereotipi modernisti e postmodernisti.

Ma a quale idea di spazio fa riferimento la sua architettura della libertà? Come si riconosce?

Ho sempre cercato una idea di spazialità libera, aperta, riconoscibile nella sua unicità, che si fa architettura attraverso un processo di rigenerazione genetica e una ricomposizione creativa. La sua forma, fortemente differenziata e attrattiva, si muove e si evolve, accumula e scompone, dissente, destruttura forme e linguaggi della orizzontalità e verticalità, e si impone per la sua trasversalità, imperfezione e antisimmetricità. Direi che si riconosce per la sua inclinazione critica e dissenziente nel proclamare la necessità di un diverso rapporto tra natura e artificio, di un diverso modo di abitare la terra.

Lei è stato definito da Alessandro Mendini “personaggio cerniera nelle ipotesi di nuovi scenari del mondo”, artefice di un progetto “dalla sintesi nuova che dà forma ad un mondo plurale”, ha scritto nel libro il filosofo Raul Fornet- Betancourt. Affermazioni molto importanti non crede?

L’impegno per un’architettura della libertà, come architettura del dialogo, così come la definì Paolo Portoghesi, risponde certamente all’obiettivo di una società democratica, che si interroga sui modi di dare forma ad un mondo plurale. La sua natura è una entità complessa, multiforme, metamorfica, multidisciplinare, in cui interagiscono diverse componenti: culturale, artistica, psicologica, sociale, educativa, tutte finalizzate a costruire il grado zero della forma architettonica; a svelare, appunto, le correlazioni tra forma e architettura. Per questo motivo ho sempre considerato lo spazio come elemento formativo e culturale, come campo di pluralità di visioni e luogo di sperimentazione e interrelazioni creative, generatore di una nuova idea di architettura legata all’uomo.

Il suo rapporto con Bruno Zevi.

Certamente un rapporto speciale. Era stato proprio Zevi a indicarmi la via della libertà, della capacità di esprimerla senza mediazioni, senza condizionamenti, senza alcuna tolleranza. Con Bruno Zevi la condivisione intellettuale è sempre stata assonanza strategica, dimostrando interesse non comune verso il mio impegno teorico, culturale e progettuale, aperto all’innovazione e dissenziente verso le dottrine metodologiche. Zevi dava valore, più di altri, al mio essere indisciplinato, alla mia estrema libertà di movimento nell’attraversamento di diversi ambiti disciplinari. Lo sorprendeva la mia autonomia e capacità di interrelare e contaminare arte, architettura, urbanistica, critica, comunicazione, nella prospettiva di radicale messa in discussione. Ciò che ci univa era quindi l’apertura critica e la sperimentazione, fino alle estreme conseguenze, di un punto di vista sempre più interdisciplinare, verso i cambiamenti culturali e i linguaggi multimediali, fonte di energia per l’architettura e la città.

A meno di un anno dal venticinquennale dalla scomparsa, qual è l’attualità di Zevi?

Al nuovo millennio Bruno Zevi (1918-2000) ha consegnato la sua lezione di vita, le sue idee, il suo amore incondizionato per l’architettura, la sua visione della storia, della critica, l’entusiasmo politico e soprattutto l’impegno ideologico per una libertà difficile, la battaglia per una nuova modernità. Sì, questa credo sia l’attualità dirompente dell’azione e del pensiero di Bruno Zevi. Credeva nel progetto moderno più di quanto i suoi interessati seguaci di turno potessero rappresentarlo; un progetto però capace di andare oltre lo stile, oltre ogni dogma, finanche oltre le sue “sette invarianti”, un progetto di libertà oltre ogni limite. “Caro Miglietta […] Superfluo dire che queste sette invarianti – mi scriveva Zevi il 20 maggio del 1980 – non sono un dogma e che uno ha perfettamente diritto di non tenerne conto”. Per Zevi, la battaglia per l’architettura era soprattutto una battaglia per la libertà. Prezioso è, dunque, il patrimonio di idee e le sue testimonianze critiche, oggi pagina memorabile dell’Archivio che segna il mio speciale rapporto con Bruno Zevi, grande storico dell’architettura, geniale urbanista e intellettuale che ha segnato il Novecento della cultura, delle idee e della critica architettonica, verso il quale, per vari motivi, siamo tutti debitori; non solo, dunque, per il suo pensiero e la sua azione, l’indipendenza e le battaglie radicali ma, soprattutto, per averci indicato che la salvezza dell’architettura è nell’architettura stessa, nella sua capacità di rigenerarsi nella libertà.

(In foto: Roma, 17 aprile 2024, libreria Gangemi International, Franco Purini, Fernando Miglietta, Massimiliano Fuksas, Orazio Carpenzano)



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