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L’incapacità dei servizi russi di gestire le info degli Usa ha portato al Crocus

Secondo un ex agente della Cia, la cooperazione tra Washington e Mosca in ambito di anti-terrorismo rimane difficile per una serie di questioni passate. Ma questo non basta a spiegare i perché del 22 marzo

“Noi siamo andati preparati con informazioni autentiche e credibili da passare ai russi, ma loro non fornivano mai informazioni significative o che non fossero trasparentemente fuorvianti”. Così racconta, in un articolo pubblicato dal Financial Times, l’ex-funzionario della Central Intelligence Agency Douglas London, che commenta per la testata britannica i tragici fatti avvenuti lo scorso 22 marzo al Crocus City Hall di Mosca. Durante il suo servizio, London si è ritrovato spesso a doversi interfacciare con Mosca, in un rapporto che le sue parole descrivono come tutt’altro che facile.

Le parole citate all’inizio si riferiscono a un fatto avvenuto ai tempi della precedente amministrazione statunitense: dopo aver ottenuto informazioni sui rischi concreti di atti terroristici commessi in Russia da parte di cittadini dell’Asia centrale che si erano uniti all’Isis in Iraq e Siria, London aveva inviato una delegazione in Russia per informare l’intelligence del Cremlino di tali rischi. Ma, anziché ascoltare i loro appelli, la parte russa accusò gli Stati Uniti di sostenere essi stessi l’Isis, offrendo agli agenti della Cia una loro lista di nomi di sospetti terroristi, interamente composta da dissidenti politici russi che vivevano in esilio in Europa.

A inizio marzo 2024, l’ambasciata statunitense di Mosca ha lanciato l’allarme su “imminenti piani” di estremisti islamici “per attaccare adunate di persone nell’area di Mosca”, avvertendo i cittadini americani di stare alla larga da luoghi affollati. Prima dell’annuncio dell’ambasciata, Washington aveva avvertito in forma privata il governo russo. E non solo avevano indicato nei concerti un possibile contesto per l’attacco, ma avevano addirittura indicato proprio il Crocus City Hall come possibile bersaglio.

Eppure, all’indomani dell’attentato il capo del Servizio di Controspionaggio Federale (noto come Fsb) Alexander Bortnikov ha dichiarato che l’avvertimento di Washington su un potenziale attacco era stato “di natura generale”, ventilando anche l’ipotesi che le agenzie di intelligence occidentali fossero in qualche modo complici della sparatoria: “Crediamo che gli islamisti radicali abbiano preparato l’azione, mentre i servizi speciali occidentali hanno assistito e i servizi speciali ucraini hanno partecipato direttamente”. Una dichiarazione in linea con il tentativo del regime di riversare la colpa su Kyiv, così da poter incanalare la rabbia dei cittadini nei binari scelti dal Cremlino.

Il Financial Times riporta anche il commento espresso da Andrei Soldatov, noto esperto in materia servizi di sicurezza russi, il quale afferma che la cooperazione con gli Stati Uniti sia problematica perché in passato si sono verificati diversi casi in cui funzionari russi incaricati di mantenere i contatti con gli americani sono stati in seguito accusati di tradimento da Mosca o sono diventati bersaglio di reclutamento da parte dell’intelligence statunitense. “Questo tipo di clima mina sempre l’idea di una reale cooperazione con gli americani in termini di antiterrorismo. E dopo l’inizio della guerra, ovviamente, questo tipo di cooperazione ne ha risentito. Pensate a un ufficiale che deve ricevere il suo messaggio dagli americani e deve far capire ai suoi superiori che devono fidarsi delle informazioni fornite dall’Occidente. Naturalmente deve pensare alla sua carriera e alla sua posizione all’interno dell’agenzia, perché non vuole essere visto come qualcuno che sta lavorando per gli americani”.

Secondo London, l’attacco avvenuto al Crocus ha anche sottolineato alcune debolezze operative di lunga data del Fsb. “Il Fsb ha molte capacità tecniche. Il Paese è cablato per il suono e la vista. Ci sono videocamere ovunque. Controllano internet. Ma non sono molto sfumati. Hanno un approccio da terra bruciata per affrontare i loro problemi. Lo si vede sul campo di battaglia, ma si traduce anche nel modo di fare intelligence. Quando cercano le fonti, di solito lo fanno con la coercizione, ricattando le persone, quelle che hanno arrestato o le cui famiglie possono minacciare, anche causando danni fisici. Non sono bravi a trovare e coltivare pazientemente gli insider, a sviluppare relazioni e ad assicurarsi penetrazioni affidabili”.

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