Parla l’autore del documentario che ha portato le telecamere per la prima volta nella sede dei servizi segreti francesi per l’estero. Il direttore “voleva che l’opinione pubblica sapesse perché il servizio riceve 1 miliardo di euro all’anno”, dice. Ma nessuna pressione, a parte la richiesta di mantenere la riservatezza dei funzionari intervistati
Jean-Christophe Notin, assieme a Théo Ivanez e alla loro troupe, è entrato nella “Scatola”. La Boîte è come viene chiamata la sede della Direction générale de sécurité extérieure (DGSE) dai suoi dipendenti. Per la prima volta le telecamere hanno varcato le porte d’ingresso dell’agenzia d’intelligence estera francese. Sono state necessarie alcune misure di sicurezza per tutelare l’identità dei venti funzionari intervistati. Solo uno è apparso nel documentario “DGSE, La fabrique des agents secrets” diffuso da France 2 mostrando il suo volto: l’allora padrone di casa, Bernard Emié, che ha diretto l’agenzia dal 2017 fino al gennaio scorso quando ha lasciato il testimone a Nicolas Lerner, fedelissimo del presidente Emmanuel Macron.
Émié parla dei suoi come di “persone normali che svolgono missioni straordinarie con risorse eccezionali”. Non c’è spazio per James Bond e il suo mito alla DGSE, così come Formiche.net non ne ha trovato tracce durante una visita a gennaio a Forte Braschi, sede dell’AISE. Le agenzie occidentali sono in trasformazione e gli stereotipi non aiutano né a raccontare il loro operato né a (ri)conquistare la fiducia della popolazione né ad attirare talenti in società sempre più diverse.
Sono due le ragioni che fanno di questo documentario una grande novità, spiega Notin a Formiche.net: “È la prima volta che un servizio di intelligence di questa importanza lascia parlare così tanti funzionari in attività e che accetta di far raccontare loro ciò che hanno realmente fatto, in questo caso nella ricerca di armi di distruzione di massa e nell’antiterrorismo”. Un’opportunità unica per l’autore, che certo non è stato l’unico a fare questa richiesta. È stato, invece, l’unico a vedersela accettata. In questi casi, spiega, serve “necessariamente un lungo rapporto di fiducia all’inizio. Avevo già dimostrato la serietà del mio approccio attraverso i miei libri su Afghanistan, Mali, Libia e altri”.
Un documentario del genere non avrebbe mai potuto essere realizzato senza il consenso della DGSE. “È quindi normale che si aspetti dei vantaggi in cambio”, commenta Notin, autore di un libro che porta lo stesso titolo (edito da Tallandier). “La prima ambizione è stata fissata da Emié durante il nostro primo incontro. Voleva che l’opinione pubblica sapesse perché la DGSE riceve 1 miliardo di euro all’anno. In secondo luogo, credo che l’obiettivo della DGSE fosse quello di attrarre i migliori candidati”, prosegue. “Poiché il suo organico è stato notevolmente rafforzato con le ultime leggi sull’intelligence, il fabbisogno è notevole: ogni anno deve assumere circa 800 persone, spesso con qualifiche (tecniche) ambite da molti attori come altri servizi di intelligence, forze armate e big tech. È quindi molto importante che la DGSE mostri al grande pubblico la realtà dei suoi lavori, più prosaica e più motivante di quella mostrata dai film”, aggiunge sottolineando però che “non ci è mai stato chiesto di modificare la struttura del film per nessun motivo”. I tagli richiesti riguardavano “solo dettagli che potevano permettere, anche solo un po’, di sollevare il velo sull’identità dei funzionari”. Su questo, sì, la DGSE è stata “categorica”. Nessuna domanda vietata. Anzi, in fase di montaggio sono stati scartati alcuni temi che il servizio avrebbe preferito mantenere, racconta ancora Notin.
In casi come questo c’è in ballo il rapporto tra giornalismo e intelligence, tra chi lavora per trovare e dare notizie e chi per trovarle e custodirle. Notin osserva due punti. Il primo: “È un segreto di Pulcinella che il giornalismo sia stato una copertura spesso utilizzata dai servizi di intelligence, anche se oggi accade più di rado. Inoltre, i giornalisti sono occasionalmente in grado di fornire servizi, come porre le domande giuste alla persona desiderata. Ma direi che, in questo caso, il giornalista si comporta come l’ingegnere o il direttore d’azienda che accetta di aiutare la DGSE. Perché aiutare la DGSE significa aiutare il suo Paese, cioè la comunità a cui appartiene, di cui fanno parte i suoi amici, la sua famiglia e lui stesso”. Il secondo: “Naturalmente, però, il giornalista deve mantenere la sua indipendenza nelle sue indagini. In questo, il suo lavoro è molto simile a quello di un funzionario dei servizi segreti. Se ottiene informazioni dalla DGSE, è suo compito verificarle con fonti esterne alla DGSE. Ed è quello che è successo con questo film. Certo, è un privilegio per me aver ricevuto l’autorizzazione a realizzarlo, ma i miei molti anni di esperienza mi hanno permesso – almeno lo spero! – di mantenere la distanza necessaria per tracciare un ritratto obiettivo della DGSE”, conclude.