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Auto cinesi in Italia? La sfida spiegata da Mazzocco (Csis)

Il botta e risposta tra Tavares (Stellantis) e il ministro Urso fotografa le tensioni tra case automobilistiche e governi europei mentre le aziende del gigante asiatico stanno espandendo la loro presenza all’estero, afferma Ilaria Mazzocco, senior fellow della Trustee Chair in Chinese business and economics presso il think tank Center for strategic and international studies di Washington

Giornata di botta e risposta, quella di ieri, tra Carlos Tavares e Adolfo Urso.

Il primo, amministratore delegato di Stellantis, ha spiegato da Torino che il gruppo non ha intenzione di andare via dall’Italia. “Chi dice che vogliamo andarcene dice fake news e le fake news aprono la finestra per fare entrare i cinesi”. E ancora: “Introdurre un nuovo competitor in Italia, molto aggressivo sui prezzi come potrebbero essere i cinesi, prenderebbe di mira e andrebbe a colpire direttamente i leader di mercato, ovvero noi. Questo potrebbe metterci sotto pressione e quindi avremmo diverse strade da percorrere, potremmo provare ad accelerare la produttività ma un nuovo competitor porterebbe uno spezzettamento del mercato”.

Un messaggio al secondo, ministro delle Imprese e del Made in Italy. Che, dopo aver nei mesi scorsi confermato i contatti con aziende cinesi, ha ribattuto così durante un evento del Sole 24 Ore. “È Stellantis che deve rassicurare l’Italia sul fatto che l’Italia sia un Paese strategico per il suo sviluppo”. E a proposito dell’ingresso nel mercato di nuovi player: “Ove Stellantis riuscisse, e ce lo auguriamo tutti, a raggiungere il milione di veicoli in un tempo che secondo me dovrebbe essere prima del 2030, questo divario sarebbe ridotto, ma non assolutamente colmato”.

“Il momento storico attuale vede molte aziende cinesi che operano nei settori delle batterie e della produzione dei veicoli elettrici sviluppare piani per la produzione all’estero, in particolare nei Paesi in via di sviluppo come Thailandia e Brasile”, spiega Ilaria Mazzocco, senior fellow della Trustee Chair in Chinese Business and Economics presso il think tank Center for Strategic and International Studies di Washington.

Questa situazione, prosegue raggiunta da Formiche.net, “sta generando conflitti in Europa tra i campioni del settore e i governi. È molto evidente in Germania, alla luce degli investimenti di Volkswagen in Cina che rendono più complicato attuare una politica di de-risking. La Francia, al contrario, si trova a voler proteggere l’industria interna ma a domandarsi come procedere nella transizione. L’Ungheria, invece, è leader nell’apertura agli investimenti cinesi”, spiega ancora. Il caso italiano, invece, “è interessante e nuovo, con il governo che si rivolge alla Cina per supplire alla percepita mancanza di un campione nazionale”, dice.

Il de-risking dalla Cina sulle tecnologie green, di cui si fa un gran parlare in ambito G7 e occidentale in generale, “è certamente possibile”, dice ancora. Tuttavia, “avrebbe tempi lunghi e costi alti, anche in termini di innovazione. Per vedere i possibili vantaggi che può portare un’apertura selettiva agli investimenti stranieri, basta guardare al caso degli investimenti di Tesla in Cina, che hanno portato una competizione e un’innovazione maggiori. In una posizione di apertura bisogna comunque essere attenti alle condizioni e ai rischi di dipendenze strategiche”, conclude.

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