Nel confronto tra Israele e Iran, è reciproca la convinzione che uno scontro militare diretto non convenga a nessuno, almeno per il momento. Gli attacchi dello scorso aprile, in parte annunciati, si sono rivelati più un monito che una reale aggressione. E l’incidente aereo del 19 maggio, che ha visto tra le vittime il presidente iraniano Raisi, non modificherà gli equilibri in atto. Il commento del generale Massimiliano Del Casale
È di queste ore la notizia dell’incidente di elicottero, che ha visto tra le vittime il presidente iraniano Ebrahim Raisi, dovuto – sembra – ad avverse condizioni metereologiche sulla rotta. Un evento drammatico che non intaccherà tuttavia gli equilibri politici interni alla leadership iraniana. Ma sarà il mese di aprile 2024 a essere ricordato come uno dei passaggi più delicati della crisi mediorientale.
Quando nella notte del 13 qualcosa come 85 tonnellate di esplosivo, tra droni, missili balistici e da crociera, vennero lanciati verso il territorio israeliano, non solo si percepiva la palpabile angoscia di trovarsi nel pieno di un’escalation del conflitto israelo-palestinese, ma anche la consapevolezza che era stata attraversata per la prima volta quella “linea rossa” che segna il limite da non oltrepassare nel confronto tra Israele e Iran.
Un confronto che si trascina dal lontano 1979, con lo scoppio della rivoluzione komeinista e con l’avvento al potere degli ayatollah. Per la prima volta, l’Iran ha reagito ad un’azione militare di Gerusalemme – quella portata contro l’ambasciata iraniana a Damasco – con un attacco diretto, in territorio israeliano. Una sorta di abbandono della sua più congegnale “guerra nell’ombra” con la quale, da regista (ormai, assai poco) occulto, cerca da tempo il primato politico nel Medioriente attraverso le tante “guerre per procura” combattute sostenendo economicamente e militarmente le varie milizie ad essa fedeli.
Un attacco per molti versi annunciato, condotto contro obiettivi militari scelti con cura, distanti da centri abitati, che perseguiva più di una finalità. Prima di tutto, dimostrare a Israele e ai suoi alleati di essere in grado di colpire il suo territorio, non più limitandosi alle sole minacce di ritorsione e inaugurando la stagione della “nuova equazione”, tanto cara proprio al presidente Raisi: “A ogni colpo inferto da Gerusalemme, risponderemo con un attacco diretto al suo territorio”. In secondo luogo, testare la capacità difensiva aerea di Gerusalemme che, nei fatti, è riuscita a neutralizzare il 99% degli ordigni lanciati dagli iraniani, dai miliziani houthi (dallo Yemen), dalle milizie filo-sciite presenti in Iraq e dagli hezbollah libanesi, con solo nove missili balistici che hanno colpito due basi aeree, nel Golan e nel deserto del Negev. Inoltre, coagulare l’appoggio politico della regione attorno al regime di Teheran, cercando di isolare le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in primis, e dando la spallata decisiva per il fallimento degli Accordi di Abramo del 2019, che erano sul punto di normalizzare le relazioni tra Riad e Gerusalemme. Infine, allentare la pressione politica interna, con una leadership autocratica sempre più invisa all’opinione pubblica, additando Israele e i suoi alleati come il male assoluto, il nemico da combattere in nome della sicurezza del Paese e della pace in Medioriente.
Ma quali sono stati gli effettivi risultati dell’attacco? Il primo e, forse, più rassicurante per Israele è l’aver messo in evidenza la propria superiorità tecnologica, in fatto di armamenti. Un successo che suona come un raro momento di buone notizie per il Paese. Rafforzato dalla certezza del sostegno politico e, quando necessario, militare dei principali partner e alleati: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giordania. L’attacco iraniano ha paradossalmente modificato in qualche modo il calcolo strategico di Gerusalemme. La consapevolezza della superiorità tecnologica e l’appoggio internazionale, soprattutto americano, forniscono oggi maggiori garanzie per la sicurezza della popolazione, attraverso un’evidente riduzione del numero delle vittime, in caso di attacco portato su vasta scala, e conferisce più flessibilità al governo per decidere tempi e modi con i quali rispondere. All’indomani dell’azione iraniana, forte era la spinta a reagire con altrettanta veemenza. Di fatto, il 19 aprile si sono registrate diverse esplosioni nei pressi del sito nucleare di Esphahan in corrispondenza di alcune istallazioni missilistiche antiaeree, causate molto probabilmente da missili autoguidati, partiti da cacciabombardieri con la “stella di Davide” che hanno operato dal di fuori dello spazio aereo iraniano. Anche in questo caso, senza arrecare, volutamente, danni significativi. Di fatto, un’altra dimostrazione della capacità di colpire il territorio nemico anche da parte di Gerusalemme. Se l’attacco dell’Iran del 13 aprile si riprometteva di spaccare il fronte occidentale, è di tutta evidenza come, sotto tale profilo, sia fallito. Ma tali fatti sembrano aver dato nuova urgenza allo sforzo americano di tessere una tela tra partner mediorientali, alla ricerca di una stabilità duratura.
Un ulteriore avvicinamento tra Washington e Riyad aprirebbe nuovamente alla normalizzazione dei rapporti diplomatici tra sauditi e israeliani. Una prospettiva che implica una maggiore pressione per risolvere la causa palestinese, una volta eliminata la minaccia terroristica di Hamas, senza più ricorrere ad azioni militari unilaterali. Cosa ci resta, dunque, degli attacchi del 13 e del 19 aprile? Gerusalemme è consapevole del proprio vantaggio tecnologico, ma non può ignorare che nove missili balistici hanno comunque colpito il proprio territorio. E se ne fossero stati lanciati di più e senza preavviso? E se fossero state scelte come obiettivi intere città o infrastrutture strategiche? Quindi, consapevolezza della propria superiorità tecnologica, sicuramente, ma anche del rischio che un fronte aperto contro l’Iran comporterebbe comunque una guerra difficile da sostenere, pur con l’aiuto occidentale. Dal canto suo, Teheran ha fornito i segnali desiderati alla comunità internazionale e, cioè, la capacità di colpire al di fuori dei propri confini. Lo sviluppo del nucleare, oggi giunto al 60% dell’arricchimento dell’uranio, preoccupa gli altri “attori” regionali e soprattutto l’Occidente. Una ragione in più per limitarsi a ricoprire, in nome di una de-escalation, un ruolo più congegnale di regista e supporter delle milizie filo-sciite. Mentre Israele è tornato a concentrarsi sull’eliminazione militare di Hamas. In definitiva, per dirla come Giuseppe Tomasi di Lampedusa, una situazione “gattopardesca”: occorre che tutto cambi perché tutto resti com’è.