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Che significato può assumere l’approvazione Onu sul riconoscimento della Palestina

Di Francesco Spartà

Tenendo conto dell’aspetto temporale e del periodo storico in cui è stata approvata, c’è il rischio che questa risoluzione possa essere utilizzata da Hamas per autolegittimarsi e di conseguenza aprire, nel prossimo futuro, degli scenari complicati non solo per Israele, ma per l’intero Medio Oriente. L’opinione di Francesco Spartà

Lo scorso venerdì, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, ha approvato con 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astensioni (tra cui l’Italia) il testo che riconosce la Palestina come qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite, raccomandando al Consiglio di Sicurezza di “riconsiderare favorevolmente la questione”. Gran parte della comunità internazionale ha accolto con entusiasmo l’approvazione della risoluzione, considerandola un primo passo verso il riconoscimento dello Stato palestinese. Eppure, il periodo storico in cui arriva questa risoluzione impone un’importante e cauta riflessione.

Mentre i media internazionali, infatti, commentavano positivamente la decisione a larghissima maggioranza presa dall’Assemblea, il sostegno alla causa palestinese e le accuse nei confronti di Israele aumentavano. Nelle stesse ore Hamas diffondeva in rete il macabro video di un ostaggio annunciandone la morte, i campus dell’Ivy League americane, ma anche delle più prestigiose università europee, comprese quelle italiane, continuavano (e continuano ancora) ad essere focolai di durissime proteste antisioniste, con in certi casi evidenti tratti di antisemitismo.

Nella stessa giornata la cantante israeliana Eden Golan, colpevole solamente di rappresentare il proprio Paese, veniva pesantemente contestata all’Eurovision, durante il quale anche Greta Thunberg veniva arrestata durante le forti proteste filopalestinesi che hanno accompagnato tutti e cinque giorni della manifestazione. Sempre l’11 maggio, poi, durante l’incontro mondiale sulla fraternità umana svoltosi in Vaticano, il premio Nobel yemenita Karman Tawakkol usava le espressioni «pulizia etnica e genocidio a Gaza», scatenando la reazione dell’Ambasciata israeliana presso la Santa Sede, che ha accusato il Vaticano di non essere minimamente intervenuto. Episodio, quest’ultimo, che aumenta sempre di più le ambiguità delle posizioni della Chiesa nei confronti del conflitto in Medio Oriente, dovendo ricordare che nel corso di questi sette mesi di guerra più volte ha apertamente criticato lo Stato israeliano, sino al punto che l’Assemblea dei Rabbini d’Italia, qualche mese fa, con una nota, chiese ironicamente “a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminarli, gli ebrei invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione, la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa”.

Ecco perché, in una situazione in cui le critiche verso lo Stato ebraico ed il sionismo aumentano, sfociando sempre di più in quell’emblematica frase dal carattere fortemente antisemita “From river to the sea” che riecheggia in ogni manifestazione filopalestinese, la risoluzione approvata venerdì dall’Onu (che ricordiamo non riconosce Hamas come organizzazione terroristica), può assumere un significato di legittimazione indiretta dell’attacco del 7 ottobre. Proprio Hamas, infatti, ha accolto questa decisione con una grande esultanza, affermando che questo traguardo rappresenta quel definitivo “riconoscimento della necessità che il nostro popolo palestinese ottenga i propri diritti legittimi e un’affermazione della cooperazione internazionale” e chiedendo, inoltre, “ai Paesi liberi del mondo di intensificare i loro sforzi e di fornire tutti i mezzi di assistenza e sostegno al nostro popolo”. L’organizzazione fondata dallo Shaykh Aḥmad Yāsīn potrà così definire questa risoluzione come il risultato dell’attacco perpetrato allo Stato ebraico 7 mesi fa, potendola inoltre strumentalizzare anche a livello politico come mezzo per riconquistare quel consenso che dopo la quasi totale distruzione della Striscia di Gaza stava nettamente diminuendo.

Tel Aviv, dal suo lato, è consapevole che quanto avvenuto venerdì possa avere nel prossimo futuro un impatto molto più significativo di quanto la risoluzione approvata ne abbia dal punto di vista formale, dal momento in cui la decisione sull’ingresso della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite spetta al Consiglio di Sicurezza, all’interno del quale vi sono gli Stati Uniti che più volte hanno ribadito il loro parere negativo.

Questa risoluzione, infatti, unita ai silenzi e alle mancate condanne delle piazze di tutto il mondo sull’eccidio compiuto il 7 ottobre, contribuisce ad isolare sullo scenario internazionale non solo Israele, ma l’intero popolo ebraico che per l’ennesima volta nella sua storia si è trovato davanti un nemico che vuole il suo sterminio, in un periodo storico in cui i figli di Abramo dovrebbero invece percepire la massima vicinanza di tutto il popolo occidentale.

Israele ha quindi immediatamente definito l’approvazione del testo come un “premio per Hamas”, e tramite il suo ambasciatore alle Nazioni Unite Gilad Erdan ha dichiarato che “questo verrà ricordato come il giorno in cui si sono aperte le porte ad uno Stato terrorista guidato dall’Hitler dei nostri tempi”.

Non va poi dimenticato che la risoluzione approvata venerdì segue quella per il cessate del fuoco del 25 marzo, in cui anche in quel caso Israele gridò alla vergogna, mentre Hamas esultava – dal momento in cui non vi era un minimo cenno al pogrom del 7 ottobre. Ed è perciò doveroso considerare i possibili effetti che da questa decisione potranno derivare durante le fasi del negoziato per il cessate il fuoco, del rilascio degli ostaggi, ma anche a conflitto terminato, allorché l’organizzazione palestinese potrà rivendicare questo traguardo raggiunto. Soffermandosi, inoltre, sui Paesi che hanno votato “sì” alla risoluzione possiamo notare poi come gran parte dell’Occidente, così come accaduto in precedenza per il cessate il fuoco, ha votato a favore della risoluzione.

Per comprendere quanto delicata fosse questa risoluzione in questo momento, è necessario soffermarsi, infine, sulla reazione degli Usa, che, dopo aver bloccato in settimana gli aiuti militari ad Israele, hanno votato contro, e come anticipato sopra, opporranno il veto anche nel Consiglio di Sicurezza, dal momento in cui hanno definito questa decisione “unilaterale e non in grado di raggiungere l’obiettivo”. Tutto questo però, avviene mentre Joe Biden, a sei mesi dal voto, è stretto nella morsa delle proteste dei campus universitari e di una importante fetta della popolazione che continua a chiedere il cessate il fuoco, e che potrebbe portare nei prossimi mesi l’amministrazione statunitense ad ulteriori mosse per raggiungere l’obiettivo pur di non perdere voti nello scontro con Donald Trump.

Ecco perché, proprio tenendo conto dell’aspetto temporale e del periodo storico in cui è stata approvata, c’è il rischio che questa risoluzione possa essere utilizzata da Hamas per autolegittimarsi e di conseguenza aprire, nel prossimo futuro, degli scenari complicati non solo per Israele, ma per l’intero Medio Oriente.

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