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Taiwan, inizia l’era Lai. Ecco l’agenda del nuovo presidente

Democrazia è la parola attorno a cui ruota il discorso d’insediamento: serve, dice, continuare a rafforzarla in patria e lavorare con chi nel mondo condivide gli stessi valori, a partire dagli Stati Uniti, per assicurare pace e stabilità. Rigger (Davidson College) spiega i tre fattori che potrebbero alterare lo status quo

Taipei (Taiwan). Il discorso di insediamento di William Lai Ching-te, 65 anni il prossimo ottobre, come nuovo presidente di Taiwan, il quinto democraticamente eletto, ruota attorno a due parole, democrazia e libertà, che distinguono la Repubblica di Cina dalla Repubblica popolare cinese. Quest’ultima considera l’isola “ribelle” e da “riunificare” (nonostante mai sia stata sotto il suo controllo) anche con la forza.

Fortissima l’attenzione internazionale sull’evento, testimoniata dai molti funzionari stranieri in visita, ufficiale e non. Lai pronuncia il suo discorso di insediamento nella grande piazza davanti al Palazzo presidenziale dopo aver giurato da presidente, formato il governo e incontrato le delegazioni straniere all’interno mentre carri, cantanti, ballerini, sbandieratori, “draghi” danzanti e un gigantesco cavallo arcobaleno che sbuffa fumo intrattenevano la folla.

Nel discorso Lai alterna l’uso di Taiwan, Repubblica di Cina o Repubblica di Cina (Taiwan) sottolineando che l’importante è la prosperità, non le etichette. Così facendo, si pone in continuità con Tsai Ing-wen, di cui è stato vice negli ultimi quattro anni.

Valori come democrazia e libertà, dice, fanno di Taiwan un Paese avanzato in Asia, capace di resistere alle autocrazie (ovvero alle mire della Repubblica popolare guidata da Xi Jinping, che pochi giorni fa ha rinsaldato l’amicizia “senza limiti” con il leader russo Vladimir Putin che continua la sua guerra d’aggressione contro l’Ucraina). Sottolineando l’attenzione internazionale ricevuta, Lai spiega che Taiwan vuole essere un modello per i diritti umani, che ha legalizzato il matrimonio gay, che ha fatto bene nella lotta contro il Covid-19 senza politiche draconiane (come nella Repubblica popolare cinese) e che per questo è alta nelle classifiche globali. Successi che nessuno vuole vedere distrutti da una guerra, aggiunge il neo-presidente impegnandosi in proposte di politica interna che possano continuare a rafforzare la democrazia e la resilienza di Taiwan.

Quanto alla politica estera, Lai sostiene che la pace e la stabilità nello stretto sono “indispensabili” per la pace e la stabilità globale, minacciate dalle azioni militari e dalle attività coercitive (“zona grigia”) della Repubblica popolare, che rappresenta “la più grande strategica sfida” attuale. Ma a Pechino, Lai tende anche un ramoscello d’ulivo invitando la Repubblica popolare a impegnarsi in misure pacifiche, come la ripresa reciproca del turismo attraverso lo Stretto. Proprio il futuro delle relazioni nello Stretto sarà “decisivo” per il futuro del mondo, spiega ancora, sottolineando che “Taiwan ha bisogno del mondo e il mondo ha bisogno di Taiwan” e assicurando l’impegno del suo governo al mantenimento dello status quo. Ecco la ricetta di Lai: rafforzare la difesa, migliorare la sicurezza economica (anche attraverso le eccellenze tecnologie in intelligenza artificiale e semiconduttori), stabilizzare i rapporti nello Stretto e poter contare su diplomazia fondata sui valori per creare deterrenza, anche attraverso la cooperazione con le altre democrazie nel mondo, a partire dagli Stati Uniti.

Per questo, al fianco di Lai, leader del Partito democratico progressista e sindaco di Tainan dal 2010 al 2017 e poi premier fino al 2019, c’è Hsiao Bi-khim, rappresentante taiwanese (ambasciatrice de facto) negli Stati Uniti dal 2020 al 2023. Nessuno dei due piace troppo alla Repubblica popolare cinese, che gli ha vietato l’ingresso nella Cina continentale e a Hong Kong. Tuttavia, Hsiao sembra poter rassicurare sia Pechino sia Washington sull’affidabilità di Lai in politica estera. Sembrano comunque lontani i tempi quando, era il 2017, il nuovo presidente di Taiwan si definiva “un pragmatico lavoratore per l’indipendenza di Taiwan”. Ora quella posizione è cambiata, come confermato oggi e già dimostrato dall’intervista rilasciata lo scorso agosto a Bloomberg, in occasione di una visita negli Stati Uniti: “Taiwan è già un Paese sovrano e indipendente chiamato Repubblica di Cina. Non fa parte della Repubblica popolare cinese. La Repubblica di Cina e la Repubblica popolare cinese non sono subordinate l’una all’altra. Non è necessario dichiarare l’indipendenza”. In quell’occasione aveva promesso anche di raccogliere l’eredità di Tsai nell’uso di “Repubblica di Cina (Taiwan)”, come fatto oggi.

Lai eredita dal precedente governo anche un peso massimo come Joseph Wu Jaushieh, che torna al Coniglio di sicurezza nazionale come segretario generale. Negli ultimi sei anni, da ministro degli Esteri, ha plasmato la politica estera taiwanese rafforzando i legami commerciali ed economici per aumentare il riconoscimento dell’isola a livello internazionale e dunque alzare il costo di un eventuale intervento militare da parte della Repubblica popolare cinese. Wu lascia il posto a Lin Chia-lung, già segretario generale della presidenza, con studi a Yale, negli Stati Uniti. Alla Difesa nazionale, invece, arriva Wellington Koo Li-hsiung, primo civile a guidare il ministero dopo la parentesi, durante meno di una settimana, di Andrew Nien-dzu Yang nel 2013. Il nuovo premier è Cho Jung-tai, già segretario generale dello Yuan esecutivo.

La professoressa Shelley Rigger del Davidson College, in Carolina del Nord, si dice “preoccupata ma non nel panico” sul mantenimento dello status quo. Sono tre le ragioni della sua preoccupazione, che spiega ad alcune testate internazionali, tra cui Formiche.net.

Prima: la Repubblica popolare cinese, e in particolare “la crescita delle sue ambizioni combinata all’aumento del senso di frustrazione per la sua posizione internazionale” per quello che considera un contenimento della sua ascesa militare ed economica. Secondo Rigger, il Partito comunista cinese sarebbe anche pronto, anche per rispondere alle sollecitazioni interne, a sacrificare una cosa su cui lavora da tempo, la credibilità di potenza internazionale responsabile, per Taiwan – e per spezzare la cosiddetta “prima catena di isole” nel Mar cinese meridionale che, purtroppo per Pechino, sono governate da Paesi alleati o partner degli Stati Uniti. Taiwan è “una linea rossa per la leadership”, dice la professoressa, ricordando che la Repubblica popolare in passato ha ceduto territori a diversi altri Stati come Russia, India e Vietnam – ma per Taiwan è, evidentemente, un altro discorso. C’è, però, un elemento che non fa scattare il panico nella professoressa: il fattore che Pechino sia riluttante a uno scontro aperto che coinvolga anche gli Stati Uniti.

La Repubblica popolare ha anticipato e “accolto” il discorso di Lai nei giorni scorsi con aerei e navi da guerra inviati nello Stretto di Taiwan, sanzioni nei confronti di cinque commentatori televisivi accusati di diffondere “false informazioni”. Mosse a cui Taipei ha risposto intensificando le attività della guardia costiera nelle acque intorno all’arcipelago e mettendo sotto protezione i giornalisti (“Taiwan è un Paese democratico nel quale la libertà di espressione è chiaramente protetta dalla Costituzione, e la Cina non ha il diritto d’interferire”, ha dichiarato la presidenza). E, proprio mentre il nuovo presidente giurava a Taipei, Pechino ha definito, tramite la sua diplomazia, che l’indipendenza di Taiwan è “è un vicolo cieco” e ha annunciato sanzioni – per lo più “simboliche”, scrive Bloomberg – contro tre società americane della difesa (General Atomics Aeronautical Systems, General Dynamics Land Systems e Boeing Defence, Space & Security) per la vendita di armi a Taiwan.

Seconda ragione dell’analisi di Rigger: gli Stati Uniti, con le amministrazioni degli ultimi 10-15 anni che “hanno sottolineato la competizione con la Repubblica popolare contribuendo ad alimentare il suo senso di frustrazione”.

Terza ragione: Taiwan, che perde una leader “affidabile” come Tsai che lascia il posto a Lai, “non testato” in termini di leadership. E qui il discorso prende due strade. La prima è quella interna, considerato che il Partito democratico progressista, guidato da Lai, non ha la maggioranza assoluta allo Yuan legislativo (il parlamento monocamerale di Taipei), mentre il Kuomintang e il Partito popolare di Taiwan l’avrebbero se trovassero un’intesa. Le risse di questa settimana allo Yuan legislativo non sono certo una novità, ma rappresentano un assist alla Repubblica popolare che cerca di screditare la giovane democrazia taiwanese (le prime elezioni democratiche sono datata 1996). La seconda è quella che porta all’estero: “Ogni provocazione può essere pericolosa in questo contesto”, evidenzia Rigger.

Nel suo discorso odierno, Lai sembra aver colto un aspetto fondamentale della società taiwanese in trasformazione, dove sono due terzi della popolazione si dichiara taiwanese (ribaltando i dati di pochi anni fa in cui la maggioranza si sentiva cinese) e in cui, dichiara Rigger, “democrazia e libertà civili sono fondamentali” per la popolazione, in particolare per le nuove generazioni. “In Taiwan vedono con grande preoccupazione la ‘chiusura’ della Repubblica popolare”, spiega la professoressa. Anche chi non morirebbe per l’identità taiwanese, lo farebbe per non diventare cinese, conclude.



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