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Trump di nuovo alla Casa Bianca? Non sarebbe più un dilettante allo sbaraglio

L’amministrazione Trump 2.0 avrebbe un forte focus interno, perché il candidato repubblicano non andrebbe alla Casa Bianca da dilettante come nel 2016. Ne parla Riccardo Alcaro, responsabile del programma Attori globali e coordinatore delle ricerche presso l’Istituto affari internazionali (Iai)

Trump 2, un ritorno o una vendetta? Guardando ai presupposti, un possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca rischia di essere vendicativo. L’ex presidente repubblicano ritiene di essere vittima di una persecuzione giudiziaria e di un continuo lavoro di sabotaggio da quello che lui chiama “deep State”, cioè l’amministrazione e i funzionari civili che ne avrebbero bloccato l’agenda di governo durante il suo mandato.

L’amministrazione Trump 2.0 avrebbe un forte focus interno, perché il candidato repubblicano non andrebbe alla Casa Bianca da dilettante come nel 2016. La sua rielezione inaugurerebbe un nuovo corso, con un’agenda di governo che non viene suggerita dal vecchio establishment repubblicano – come nel suo primo mandato – ma che esprime la realtà di un partito repubblicano ideologicamente trasformato dal movimento trumpiano “Make America great again” (Maga).

Trump si è creato una base di potere abbastanza grande da produrre una propria macchina organizzativa e un potere quasi assoluto sul partito. Quest’ultimo oggi è profondamente nazionalista, nativista, con tendenze autoritarie ed esclusivista. Del movimento di destra reaganiana ha mantenuto una forte fascinazione per la forza americana, ma non per la leadership internazionale, Trump vuole essere riconosciuto come “boss” a livello globale, ma non “leader del mondo libero” come nella propaganda ideologica di Reagan.

Di questa condivide l’opposizione a tasse, regolamentazione dei mercati e welfare. Ne ha invece respinto il sostegno al libero commercio (un trend che riguarda anche i democratici) e l’approccio favorevole all’immigrazione come motore dell’economia.

Pur venendo dalla destra radicale, Reagan sapeva usare toni da unificatore, rivolgendosi a tutti gli americani. Trump invece punta a mobilitare a sua base e quindi sulla divisione. Non a caso, un elemento centrale della sua agenda è che la sua nuova amministrazione sia reclutata tra i fedelissimi al progetto Maga.

Un fattore preoccupante per la politica interna e per il dipartimento di Giustizia, che formalmente è indipendente dalla Casa Bianca, ma che si teme con Trump possa diventare uno strumento per fermare innanzitutto i processi federali a suo carico e perseguitare i suoi avversari politici.

Sul fronte internazionale, la rielezione di Trump porterebbe a una sostanziale continuità con il binomio di disingaggio e aggressività visto durante il suo primo mandato. La questione che interessa di più Trump è l’accresciuta competizione con la Cina, un’eredità del suo primo mandato che lo stesso Biden ha raccolto.

Tuttavia, non ci sono indicazioni sul fatto che Trump intenda continuare la linea multilaterale di Biden, che ha costruito sia con l’Unione europea sia con i Paesi dell’Indo-Pacifico una rete di rapporti politici e di sicurezza per meglio imbrigliare la Cina. In Medio Oriente si potrebbero registrare due tendenze contrastanti, le stesse rilevate durante la prima presidenza Trump.

Da una parte, Trump è fortemente riluttante a impegnarsi in conflitti militari ormai invisi all’opinione pubblica. Dall’altra, all’istinto di non intervento Trump accompagna l’appoggio incondizionato a Israele. Difficilmente quindi si discosterebbe dalla linea di Biden di sostegno a Israele. Il punto sul quale i due si distinguerebbero è la questione palestinese, verso la quale sembra ancor meno interessato di Biden.

Sul terzo grande teatro, l’Europa, Trump sembra propenso a disingaggiare gli Stati Uniti dalla difesa dell’Ucraina e, in prospettiva, della sicurezza europea. Questo porterebbe a una frammentazione della relazione transatlantica, che oggi procede su tre binari paralleli: la Nato, il binario Usa-Ue e i rapporti bilaterali tra Stati Uniti e singoli Paesi, attualmente in una forma relativamente omogenea.

Con Trump si accentuerebbe la dimensione bilaterale e in parallelo perderebbe enfasi il rapporto con l’Unione europea e con la Nato. Un’operazione del genere indebolirebbe la sicurezza europea, perché l’Ucraina diventerebbe un conflitto congelato e pertanto una fonte permanente di instabilità.

Questo sarebbe un grande vantaggio per la Russia, che con le sue tattiche ben provate di propaganda, disinformazione e infiltrazioni nella politica interna dei Paesi europei troverebbe il modo di fomentare sempre di più il discorso politico secondo il quale l’Ucraina è un problema per l’Europa.

Sul rapporto tra Stati Uniti e Italia, nel caso di un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca, ci sono due versioni: una in cui la rielezione di Trump è uno svantaggio per Roma e per il governo in carica; un’altra che vede spazio per una partnership bilaterale, ad esempio in Africa in chiave anti-terrorismo e migratoria.

Con Trump alla Casa Bianca ci sarebbe un’ulteriore spinta, sia da Washington che internamente all’Europa, per un aumento delle spese per la difesa e l’Italia, su questo fronte, è indietro rispetto ad altri Paesi, anche per le sue ridotte capacità fiscali.

Il secondo problema riguarda il commercio, dove Trump minaccia tariffe che deprimerebbero le esportazioni italiane verso gli Usa, che negli ultimi anni hanno raggiunto livelli record. Allo stesso tempo la vittoria dei repubblicani ‘Maga’ sarebbe però una grande iniezione di fiducia alla nuova destra nazionalista in Europa, negli Stati Uniti e in Sud America e in questo senso, la nostra coalizione di governo ne uscirebbe legittimata sullo scacchiere internazionale.

Analisi pubblicata nell’ultimo numero della rivista Formiche 202

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