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Asset russi e gas, a che punto è la guerra economica alla Russia

Di Luca Picotti

Sui beni sottratti a Mosca c’é una logica attendista: si attuano misure temporanee, si attende le evoluzioni del conflitto e, al limite, interverranno gli Stati. Al momento, però non vi è ancora nessuna misura radicale, ossia irreversibili confische dei beni. Il commento di Luca Picotti, avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine, autore di “La legge del più forte” (Luiss)

La guerra economica tra paesi del G7 e la Russia procede e, per certi versi, si intensifica. Vi sono tre recenti novità in merito, da leggersi anche alla luce del vertice in puglia appena trascorso. L’Unione europea è riuscita a trovare un accordo sul quattordicesimo pacchetto di sanzioni. Si colpisce, per la prima volta e seppure indirettamente, il gas (in particolare, il Gnl), vietando la riesportazione con trasbordo all’interno dei porti europei, pratica che si era sviluppata negli ultimi tempi.

Trattasi solo di un piccolo passo, ma non per questo irrilevante: a più di due anni dall’inizio del conflitto, con l’Unione europea che è riuscita a ridurre la sua dipendenza dal gas russo di 2/3 rispetto al pre 24 febbraio 2022, si aprono gli spiragli per iniziare a sanzionare anche il gas. In merito, occorre ribadire che sul versante dell’energia, la vera forza russa, le sanzioni sono state adottate con inevitabile timidezza, quando non proprio evitate: il carbone è stato sanzionato da agosto 2022, il petrolio via mare da dicembre 2022, così come il price cap per l’assicurazione e il trasporto di petrolio verso terzi.

Il gas è sempre rimasto libero di circolare. Difatti, non mi stanco mai di ripetere che il decoupling in questo ambito è stato più di fatto che di diritto. In altri modi probabilmente non si poteva fare e solo ora, con le forniture già diversificate, si sta iniziando a ragionare sulle sanzioni al gas. Questo quattordicesimo pacchetto è il primo passo. Il pacchetto inoltre prova a intensificare la pressione sulla flotta fantasma russa. Difatti, per eludere il price cap, Mosca si è avvalsa di una flotta di navi vetuste e non registrate, difficili da individuare.

Mentre tale pratica non è possibile, ad esempio, per il trasporto di Gnl, che richiede metaniere specifiche e non diffuse, per il petrolio, invece, il trasporto può avvenire più facilmente e, seguendo l’esperienza nordcoreana delle navi fantasma, Putin ha beneficiato di questa strategia per vendere petrolio a un prezzo superiore di sessanta dollari al barile. L’obiettivo dei paesi del G7 è individuare la flotta per fermare, o quantomeno attenuare, l’elusione del price cap, anche perché abbassare il prezzo del petrolio è essenziale per limitare le entrate del Cremlino.

Nel mentre, gli Stati Uniti il 12 giugno hanno inasprito ulteriormente le sanzioni secondarie, sì da mettere pressione agli istituti di credito terzi che facilitano le transazioni con controparti russe per l’export di beni dual use e relativi al settore della difesa. In particolare, sono state individuate diverse entità utilizzate per ovviare alle sanzioni secondarie, tendenzialmente, banche piccole, considerato che gli istituti principali non possono rinunciare al dollaro. In questo, i cinesi sono cercano di stare con il piede in due scarpe: non possono permettersi di perdere l’accesso al mercato americano, anche se al contempo provano a sostenere l’alleato russo.

Le transazioni tramite triangolazioni finanziarie e banche locali risultano comunque più costose per il Cremlino e sono diversi i ritardi nelle spedizioni. Anche perché, bisogna considerare che nell’export di armamenti si ha a che fare con licenze, ordinativi di ingente valore, e dunque con transazioni che necessitano di solide garanzie, specie per il venditore. Per questo non potere contare sui circuiti principali è un problema per il Cremlino. Sotto questo profilo, le sanzioni secondarie, in vigore da fine dicembre 2023 e recentemente rafforzate, rappresentano l’arma più incisiva. Non sono invincibili, l’Ofac non può intercettare tutte le triangolazioni, ma senz’altro rallentano gli scambi e impongono oneri maggiori.

Infine, si è molto discusso sul prestito di 50 miliardi all’Ucraina deciso in sede G7 e, in linea teorica, garantito dai profitti degli asset russi congelati, a partire dai 300 miliardi di riserve della banca centrale depositate nelle giurisdizioni dei paesi G7. In molti hanno fatto notare che tali profitti ammontano a circa 3 miliardi all’anno e che dunque il prestito sarà pagato, sostanzialmente, dagli Stati. Sul punto, e al netto di come verrà congeniato nel concreto, la logica a mio parere è questa e risponde al compromesso proposto dagli Stati Uniti: piuttosto che aspettare che maturino i profitti ogni anno, cifre troppo piccole nell’immediato, si ragiona in termini di anticipo, scommettendo sul lungo termine.

Ad esempio, se il congelamento degli asset, e dunque il decoupling tra le economie occidentali e russa, durasse per quindici anni, tale prestito potrebbe essere restituito con i profitti. Altrimenti, nel caso gli asset dovessero essere scongelati in virtù di accordi o negoziati, è probabile che vi sarà una garanzia parallela degli Stati. Qui sì che si può dire che pagheranno i singoli paesi. La logica è quella attendista: si attua misure temporanee, si attende le evoluzioni del conflitto e, al limite, interverranno gli Stati. Al momento, non vi è ancora nessuna misura radicale, ossia irreversibili confische dei beni.



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