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Perché la notizia della morte del Belgio è esagerata

Di Lorenzo Farrugio

Il Belgio conserva molti punti di forza, come un’economia cresciuta del 66% in 30 anni, la seconda minore diseguaglianza per distribuzione patrimoniale nell’Unione Europea e un Pil pro capite superiore a quello di francesi e tedeschi. Dopo tutto è lo Stato fallito con più successo al mondo

Il 9 giugno il Belgio ha vissuto una palingenesi elettorale, rinnovando col voto tutti i piani di governo, dal Parlamento europeo ai suoi 5 parlamenti locali. L’architettura istituzionale belga favorisce i veti e la frammentazione partitica. Nonostante le forti disparità territoriali, la tanto temuta ondata dell’estrema destra fiamminga, affiliata al partito europeo di Marine Le Pen, non vi è stata ma la sua crescita elettorale sposta l’agenda politica del Paese verso una devolution ancora più spiccata le cui disfunzioni hanno accentuato, invece che sopire, le spinte centrifughe. Il Belgio conserva comunque molti punti di forza, come un’economia cresciuta del 66% in 30 anni, la 2° minore diseguaglianza per distribuzione patrimoniale nell’Unione Europea e un Pil pro capite superiore a quello di francesi e tedeschi. Dopo tutto è lo Stato fallito con più successo al mondo.

Nell’immaginario comune il Belgio è un indistinto territorio incastonato tra vicini ingombranti, che ha come motivo di esistere l’ospitare le istituzioni dell’Unione Europea, i quadri di Magritte e una delle nazionali di calcio più forti al mondo.

Tuttavia, come le tele del maestro surrealista, anche i belgi vivono di vita propria e il 9 giugno hanno votato nella “Super Sunday” del Paese. Insieme agli altri popoli del Vecchio continente, hanno eletto il nuovo Parlamento Europeo (per la prima volta anche col voto dei sedicenni) ma in contemporanea lo Stato belga è andato incontro a una palingenesi totale, con elezioni che hanno rinnovato tutti i suoi livelli di governo, dal Parlamento federale alle sue autonomie linguistiche e territoriali.

A dispetto dell’astensionismo sempre più dilagante nelle democrazie mature, spicca una prima nota positiva: l’affluenza è stata dell’87% per le elezioni federali e dell’89% per le europee, anche perché in Belgio votare è obbligatorio e chi si astiene, oltre a ricevere una multa, alla lunga può perdere il diritto di voto.

Dopo uno spoglio tumultuoso al livello continentale, che ha portato il presidente della Repubblica francese Macron a sciogliere l’Assemblea nazionale, Alexander De Croo dal comitato elettorale del suo partito ha annunciato in lacrime le sue dimissioni da primo ministro belga. La mossa sa di sceneggiata: è un atto che sarebbe stato comunque dovuto perché è stata rinnovata anche la Camera dei Rappresentanti alla quale l’esecutivo è legato da rapporto di fiducia.

Al di là dello stretto contingente, è interessante approfittare di questo appuntamento elettorale per gettare uno sguardo sull’universo curioso del Paese che pregnantemente si porta dietro l’appellativo di “campo di battaglia d’Europa”.

L’architettura istituzionale del Belgio è infatti il sogno proibito di qualunque aspirante servitore a vita dello Stato: in presenza di una popolazione inferiore all’area metropolitana di Parigi, nella cornice di una monarchia popolare si innestano una Camera dei Rappresentanti, un Senato, un governo federale, 3 parlamenti e 3 esecutivi regionali, 3 comunità linguistiche di cui 2 con un proprio governo e parlamento, 3 commissioni comunitarie per la capitale, 10 province, 581 comuni e vari enti intermunicipali, sovramunicipali e interprovinciali.

Il Paese è terra di immigrazione: negli ultimi 23 anni il flusso netto di immigrati è stato di 1,16 milioni di persone su una popolazione di 11,7 mln di residenti, oggi più di 1/3 dei quali è privo di cittadinanza belga o nato all’estero. A Bruxelles solo 1 abitante su 4 è un cittadino belga con origini belghe.

Non a caso insieme al carovita e alla criminalità, l’immigrazione è stata il tema caldo di questa campagna elettorale.

Soffiando sul sentimento nativista ha costruito il suo successo “Vlaams Belang” (VB), erede dell’ala più a destra dell’onda lunga del Movimento fiammingo. Dopo aver assunto le redini del partito a seguito di un decennio di declino, l’enfant prodige Tom Van Grieken, forse immemore del trattamento toccato in sorte al secessionista catalano Carles Puigdemont tuttora esiliato nella nazione belga, ha rilanciato il suo schieramento promettendo lo scioglimento consensuale del Belgio e la dichiarazione unilaterale di indipendenza, in caso di fallimento della via negoziale.

In parallelo anche la Vallonia, tradizionalmente di sinistra ma divenuta dagli anni ‘70 la “Rust Belt” d’Europa per via della deindustrializzazione e dello spopolamento, sembrava essere il laboratorio perfetto per concepire un potente movimento di destra radicale. Eppure la regione ha assistito alla tenuta del Parti socialiste (PS), che tuttavia a differenza della gemella fiamminga Vooruit cede terreno al livello nazionale e in modo più pronunciato nel parlamento regionale vallone, sua tradizionale roccaforte elettorale. L’ampio ricorso al clientelismo e all’impiego pubblico non ha potuto impedire l’inesorabile invecchiamento e il restringimento della sua base.

Nell’ultimo trentennio il Paese ha inizialmente attraversato una parentesi di virtuosità fiscale di una dozzina di anni durante la sicura guida prima di Jean-Luc Dehaene e poi di Guy Verhofstadt. Dal 2007 a oggi il rapporto debito/Pil è però poi aumentato di 25 punti percentuali. Nello stesso arco di tempo si sono avvicendati 10 esecutivi che hanno dovuto fare i conti con la necessità di portare al tavolo sempre più forze politiche, sparse lungo tutto l’emiciclo, per abborracciare una maggioranza in Parlamento.

In aggiunta persistono forti asimmetrie regionali: nel 2023 il tasso di disoccupazione nelle Fiandre era al 3,3%, in Vallonia si attestava all’8,2%. Nel 2022 il Pil fiammingo era 2,6 volte il prodotto interno lordo vallone. I fiamminghi nutrono risentimento verso i valloni perché ritengono di star pagando il conto dei loro welfare e sussidi regionali ma l’impianto federalista ha via via consentito alle Fiandre di trattenere in buona misura il proprio residuo fiscale. Oggi la regione fiamminga è destinataria del 70% delle risorse del bilancio statale. Questo non ha giovato all’appianamento delle sperequazioni territoriali del Regno. La vexata quaestio dell’inconciliabilità tra valloni e fiamminghi affonda le sue radici nel XIX secolo ma il fossato tra le due comunità si è fatto più profondo quando a partire dagli anni ‘80 le Fiandre hanno ribaltato le carte in tavola, diventando il motore economico della nazione.

Rinnovando di volta in volta il patto sociale con i corpi intermedi, a partire degli anni ‘70 in varie ondate il Belgio ha trasferito sempre più competenze alle sue autonomie territoriali e linguistiche. Questa esigenza nasceva dalla “pillarizzazione” della società, ovvero dalla suddivisione verticale dei suoi cittadini, che si basava in origine sul credo politico (socialista, liberale o democristiano) e che ai giorni nostri poggia sull’appartenenza linguistica, dando vita a sindacati, scuole, università, giornali, banche, ospedali, associazioni culturali e sportive separati. Al termine della Guerra fredda la pillarizzazione ha ceduto il passo all’individualismo, che ha indebolito queste identità ma non ha sopito la spinta alla devolution.

La fine del voto di appartenenza ha fatto seccare il collante ideologico della società belga, investendo il consenso dei partiti tradizionali. I Christen-Democratisch en Vlaams (CD&V), la “DC” delle Fiandre che ha espresso finora il maggior numero di primi ministri del Paese, è passata dai fasti del 26% degli anni ‘70 all’8% di queste elezioni. Il conseguente vuoto politico ha dato adito alla nascita di nuove formazioni in cerca di congiunture favorevoli per arrivare rapidamente al potere.

Queste ulteriori fratture sociali hanno reso la formazione dei governi (che di per sé prevede una bizantina trafila di incarichi e preincarichi esplorativi) un puzzle ancora più complesso: l’attuale governo dimissionario,  sostenuto da una “coalizione Vivaldi” (in cui è presente il colore di ognuna de “Le quattro stagioni” grazie alle tante ideologie che vi coabitano), è stato formato dopo 653 giorni di permanenza di esecutivi per il disbrigo degli affari correnti e col concorso del numero record – per il Belgio – di 7 partiti. Già nel 2010 – 11 erano serviti 541 giorni per la formazione del gabinetto Di Rupo I, un primato al livello mondiale.

La quadratura del cerchio al momento della nascita degli esecutivi diventa un esercizio di aritmetica. Sulla scorta della previsione costituzionale di parità linguistica in seno al Consiglio dei ministri, si segue in modo scientifico un “Manuale Cencelli”, tradotto per l’occasione metà in brabantino e metà in piccardo, che prevede la distribuzione in più turni degli incarichi ministeriali, di sottogoverno e di vertice delle assemblee legislative in base all’ordine di punteggio cumulato dai partiti col risultato elettorale e l’identità linguistica.

La composizione del mosaico è resa intricata dal fatto che in contemporanea va trovata una quadra per il governo di ciascuna regione e comunità linguistica nonché di Bruxelles Capitale, che per dettato costituzionale vengono rinnovate in concomitanza con la Camera dei Rappresentanti.

Il sistema partitico e istituzionale accentua la frammentazione politica e presta il fianco ai veti incrociati. A eccezione del Parti du Travail de Belgique – Partij van de Arbeid van België (Ptb – Pvda) e parzialmente di Ecolo – Groen, le principali forze del Paese hanno tutte un impianto regionale e quindi un duplicato in ciascuna comunità linguistica con gruppi parlamentari indipendenti nelle Camere federali.

Il voto per la Camera dei Rappresentanti segue il sistema proporzionale, seppure corretto con una soglia di sbarramento al 5%. Si tratta per la precisione del metodo D’Hondt, che gli italiani hanno imparato a conoscere con l’elezione dei rappresentanti di istituto nelle scuole e la legge elettorale in vigore per il Senato italiano fino al 1992.

Sono eletti col proporzionale, con preferenze, anche i parlamenti delle regioni e delle comunità belghe, che designano i membri del Senato con una votazione di secondo livello che rispecchi i rapporti di forza esistenti tra i partiti nelle assemblee legislative locali.

In ambito federale è però prevista la sfiducia costruttiva. Dunque è difficile disarcionare il primo ministro una volta che sia entrato in carica. Tuttavia se il governo perde la fiducia della Camera ed entro 3 giorni i deputati non esprimono una proposta di governo alternativo, il re ha facoltà di convocare elezioni anticipate.

È utile tenere a mente come chiave ermeneutica dei risultati del 9 giugno il fatto che le oscillazioni della politica belga non siano use a regalare i grandi colpi di scena a cui la volatilità elettorale italiana ci ha abituati nell’ultimo decennio. Cionondimeno, data l’elevata frammentazione del quadro partitico, la flessione di un paio di punti percentuali di una singola forza comporta la perdita di seggi preziosi per la negoziazione degli equilibri complessivi. Nel voto per le europee gli scostamenti percentuali dei partiti belgi sono stati più pronunciati che nel resto delle concomitanti votazioni ma questi hanno comportato lievissime differenze nell’assegnazione dei seggi, in virtù dell’esiguità numerica della pattuglia belga in seno all’Eurocamera.

Nella Camera bassa che si appresta a insediarsi, le 7 forze che compongono il gabinetto De Croo sono passate da 86 a 74 scranni, finendo per un soffio in minoranza. Il partito del premier dimissionario, gli Open Vlaamse Liberalen en Democraten, ha perso più di 1/3 dei voti ricevuti nella tornata del 2019. Per contro ha dimostrato di essere in grande spolvero il francofono e liberalconservatore Mouvement Réformateur, che alle elezioni regionali della Vallonia ha sfiorato il 30% dei voti e si è piazzato al 2° posto in quelle federali. A sorpresa il movimento cristiano – sociale vallone Les Engagés ha quasi triplicato i suoi seggi alla Camera dei Rappresentanti.

Alla fine la tanto ventilata ondata nera del Vlaams Belang, che è affiliato al partito europeo Identità e Democrazia di Marine Le Pen, si è tradotta in una crescita di nemmeno 2 punti percentuali sul totale dei voti sul piano nazionale rispetto alle elezioni precedenti. Anche se nel voto per l’Eurocamera è arrivato primo, nelle altre competizioni elettorali VB ha dunque mancato il sorpasso sulla “Nieuw-Vlaamse Alliantie” (N – VA), che esprime un nazionalismo fiammingo più moderato e aderisce al gruppo dei Riformisti e Conservatori Europei facente capo a Giorgia Meloni. N – VA, pur rimanendo fermo nel grado di consenso, si è confermato il principale schieramento del Paese. Non è riuscito però a ripetere l’exploit del 2014. L’affermazione elettorale dei nazionalisti fiamminghi non è un evento inedito: il picco toccato da VB nel 2024 era già stato ottenuto dalla sua formazione progenitrice, il Vlaams Blok, alle europee del 2004. Nel 2007 VB e NV – A avevano già ricevuto, come questa volta, il 30,5 % dei voti in ambito federale. In passato la NV – A è stata pure azionista di maggioranza per 4 anni di un esecutivo a guida Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo uscente.

Ha guadagnato invece nuovo terreno il Ptb – Pvda, di ispirazione maoista – leninista, che in 5 turni elettorali è passato dall’0,8% al 9,84%. Nel complesso i partiti meno ortodossi (Vb, N-Va e Ptb – Pvda) hanno conquistato poco meno del 40% dei seggi della Camera bassa, deludendo gli allarmati pronostici.

I verdi, che correvano sotto le insegne di Ecolo – Groen, sono stati infine la famiglia politica che ha arretrato più di tutte in ogni assemblea legislativa, più che dimezzando la loro compagine nel ramo del Parlamento eletto in modo diretto.

Paradossalmente questo esito ha semplificato il quadro politico, aprendo un sentiero per la formazione dell’esecutivo nazionale meno accidentato che in passate congiunture. Il trentottenne presidente di MR, Georges-Louis Bouchez, ha indicato come propri interlocutori privilegiati i cristiano – sociali di Les Engagés e si è già detto disponibile a fare squadra con la N – Va per formare un governo. Il leader dei nazionalisti fiamminghi Bart De Wever, dopo essere risultato il candidato più votato del Belgio, punta a diventare primo ministro imperniando la sua agenda politica soprattutto sulle finanze statali. Il capo di N – Va ha comunque escluso di collaborare al livello federale con Vb, lasciando però la porta aperta a un’alleanza nelle istituzioni fiamminghe. Sia N-Va che MR convergono sulla volontà di snellire l’apparato statale in modo da sforbiciare l’alto deficit che il Belgio registra con qualche eccezione da 15 anni. Quello atteso per il 2025 è del 4,7%. Il 10 giugno il presidente della Vallonia e del PS, Paul Magnette, che fino all’apertura delle urne era ritenuto l’uomo forte della politica belga, ha reso nota la scelta del suo partito di andare all’opposizione sia in regione che alla Camera dei Rappresentanti. Molto fa pensare che pertanto reggerà ancora il cordone sanitario che ha finora tenuto il Vlaams Belang fuori dall’esecutivo nazionale. Tuttavia la sua crescita sposta a destra e verso un federalismo ancora più spiccato la finestra di Overton della sfera pubblica belga.

Il governo e il parlamento uscenti hanno regalato alla futura maggioranza il potere di riformare la Costituzione senza la necessità di dover riandare alle urne, attivando a ridosso delle elezioni del 9 giugno l’art. 195 della stessa, che prevede lo scioglimento delle Camere a seguito dell’individuazione degli articoli costituzionali da riformare. È stata così spianata la strada a una riforma di ampia portata che investa anche lo stesso meccanismo di revisione della Carta, per la quale è attualmente richiesta una maggioranza di 2/3 in ciascun ramo del Parlamento.

L’elefante nella stanza è il disegno perorato dalla N – Va (ma per il momento non all’ordine del giorno) di trasformare il Belgio in una confederazione deputata soprattutto alla conduzione della politica estera e di difesa. Lo svuotamento dello Stato federale ha generato non poche disfunzioni, che paradossalmente alimentano le spinte centrifughe invece di farle rinsavire.

Il Belgio ha una storia ingloriosa di disorganizzazione delle forze di polizia e di intelligence, di postura lasca contro il contrabbando di armi e di porosità nei confronti del terrorismo islamico (che ha seminato morte nel 2015-16). Nel 1989 un suo ex primo ministro condannato per frode, Paul Vanden Boeynants, venne rapito e rilasciato nell’arco di un mese senza che venissero mai acclarate le circostanze dell’accaduto. Nel 2014 è stata sabotata la centrale nucleare di Doel senza che alcun responsabile venisse individuato in un’inchiesta durata 7 anni. Nel 2016 il piano per il decongestionamento del traffico stradale della capitale è stato rimandato perché i progetti erano stati mangiati dai topi. Nel 2022 la spesa pubblica belga, spinta all’estremo dalla geminazione dei piani di governo, ha assorbito il 53% del Pil, una delle percentuali più alte al mondo. Di conseguenza la pressione fiscale, fuori dalla bolla delle organizzazioni internazionali di Bruxelles, si aggira intorno al 50%.

A lungo i belgi sono stati euroentusiasti e la loro speranza era di sciogliere le spaccature regionali fondendosi con l’Unione Europea. Tuttavia l’opera incompiuta dell’integrazione continentale ha esacerbato i talloni di Achille della “lasagna amministrativa” belga, in cui sorgono continuamente conflitti di attribuzione. Il Senato ha il potere di dirimerli ma l’architettura istituzionale è disseminata di veto players e conferisce ai gruppi linguistici nel Parlamento federale potere di interdizione.

Come ha scritto l’Economist nel 2021, “il Belgio è un esperimento di governance quantistica”, in cui ogni livello di governo può essere in disaccordo con gli altri e con se stesso. In Belgio sono così tanti i passaggi per arrivare a una decisione che nessuno si sente in dovere di prenderla. La duplicazione dei centri decisionali fa venire meno qualunque forma di accountability. Quando tutti sono responsabili di una (pessima) scelta, nessuno è chiamato a risponderne.

Ma il Belgio ha comunque dei punti di forza, come un’economia cresciuta del 66% negli ultimi 30 anni. È inoltre tra i Paesi meno diseguali al mondo, per quanto riguarda il reddito dei suoi nuclei familiari, e la 2° nazione europea con la minore disparità in termini di distribuzione del patrimonio. Il Belgio ha per di più un Pil pro capite a parità di potere di acquisto superiore di quasi ¼ rispetto a quello italiano. I suoi abitanti hanno in media una vita più agiata di quella dei tedeschi, dei francesi e dei britannici.

Insomma il Belgio è davvero lo Stato fallito con più successo al mondo. Nella Sicilia affezionata all’autonomia si direbbe: “Quando i mugnai litigano, la farina saprà buona”.


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