Ieri come oggi, i progetti politici hanno un senso e possono giocare un ruolo decisivo nella vita pubblica del nostro Paese solo se sono espressione di una domanda della società che sale dal basso. E mai come operazioni che vengono studiate e pianificate dall’alto dai vertici centrali dei partiti
Il Centro, come qualsiasi altro progetto politico, culturale e di governo, non nasce dall’alto. Non può essere credibile, e neanche realisticamente percorribile, un progetto politico eterodiretto. Fuor di metafora, è abbastanza singolare ed anacronistico il dibattito che è decollato a sinistra sulla necessità di allargare la coalizione ad un partito di centro. Certo, è sufficientemente noto che in Italia le elezioni, tutte le elezioni, si vincono al centro. A maggior ragione in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato da una profonda e alquanto nefasta radicalizzazione della lotta politica. Una lotta che esalta i rispettivi massimalismi e che rischia di scivolare in modo sempre più irreversibile verso la deriva degli “opposti estremismi”.
Ma, appunto, il progetto politico deve essere serio e credibile. Cioè deve nascere dal basso e non può essere teleguidato dall’alto. Tutto il contrario di quello che dice e che teorizza il sempreverde Goffredo Bettini. Ovvero, visto che l’alleanza tra la sinistra radicale e massimalista di Elly Schlein, la sinistra fondamentalista e ambientalista della coppia Fratoianni/Bonelli e la sinistra populista e demagogica dei grillini non è affatto sufficiente per la vittoria finale, si pone l’urgente necessità di allargarsi al centro. Come, si chiede Bettini? La risposta è semplice. Dal quartier generale del Nazareno si individua il profilo – e ovviamente il nome e il cognome – del futuro “federatore” di questa potenziale area centrista e il gioco è fatto. I nomi sono quelli apparsi abbondantemente sui giornali. E cioè, o persone attualmente iscritte al Pd oppure che gravitano attorno al Pd ma non hanno ancora la tessera di quel partito.
In entrambi i casi è abbastanza evidente che si tratta di un gioco delle tre carte, come si dice in gergo. Ovvero, un meccanismo che non porta affatto nuovo consenso elettorale ma che permette agli azionisti della coalizione di sostenere che nell’alleanza è presente anche il Centro. Possibilmente di area cattolica. Insomma, la solita prassi del vecchio Pci che prevedeva all’interno delle sue liste i famosi “indipendenti di sinistra” cattolici o l’antico metodo comunista dei cosiddetti “partiti contadini”, cioè strumenti politici inventati dall’alto per confermare la natura plurale della coalizione del tempo. Ora, e al di là di qualsiasi polemica politica e, men che meno, personale, è di tutta evidenza che anche nella futura alleanza che raggruppa le diverse ed articolate espressioni della sinistra italiana, non può esserci una forza centrista, riformista e di governo inventata e pianificata dall’alto. Anche perché quella cultura, quel pensiero, quella tradizione e, soprattutto, quel progetto devono avere una vera ed autentica cittadinanza all’interno della coalizione.
Detto in altre parole, ci deve essere un minimo comune denominatore sul versante valoriale e politico tra i vari partiti che si riconoscono nel progetto complessivo. Non possono essere, di grazia, solo la lotta ad un fantomatico fascismo o una altrettanto astratta e virtuale lotta contro la dittatura o svolta illiberale le motivazioni decisive e qualificanti che uniscono un centro popolare, moderato, riformista e di governo con una sinistra radicale, massimalista e fondamentalista. Ecco perché, ieri come oggi, i progetti politici hanno un senso e possono giocare un ruolo decisivo nella vita pubblica del nostro Paese solo se sono espressione di una domanda della società che sale dal basso. E mai come operazioni che vengono studiate e pianificate dall’alto dai vertici centrali dei partiti.