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Cos’è la diplomazia culturale nel mondo geopolitico. Scrive Bassan

Di Marco Bassan

Capire la propria posizione geografica e strategica, unica all’interno dello scenario mediterraneo, europeo e globale rappresenta una strada necessaria da percorrere per costruire una propria visione, alternativa e parallela a quelle dominanti. La via italiana potrebbe ispirare altri Paesi che non vogliono sottostare a loro volta alla pressione della hyper-contemporaneità, e desiderano identificare un nuovo equilibrio su cui basare la propria crescita. In particolar modo quei Paesi del Mediterraneo per i quali l’Italia, per ragioni meramente geografiche, fa da ago della bilancia. L’intervento di Marco Bassan, fondatore Spazio Taverna

La rilevanza economica, politica e sociale in campo internazionale di una nazione dipende, in primis, dall’idea che gli altri popoli hanno della nazione stessa. La diplomazia culturale di un Paese rappresenta lo strumento principale per proiettare un’immagine di sé capace di produrre un posizionamento in grado di attrarre a sé il mondo internazionale.

Fare diplomazia culturale significa esportare un modello di vita in cui crediamo, capace di interpretare la complessità di questo momento e affrontare le sfide contemporanee che questo periodo storico ci sottopone.

Da troppi decenni a livello culturale l’Italia esporta esclusivamente un’immagine antica e archeologica di sé, affascinante per i turisti e rassicurante per i concittadini, ma del tutto inutile a livello geopolitico, dove conta solamente l’idea di presente che siamo in grado produrre come popolo.

Ma cos’è la diplomazia culturale nel mondo geopolitico?

Un esempio principe è stato lo sviluppo del piano Marshall, quando gli Stati Uniti, oltre a far piovere miliardi di dollari sugli stati europei per favorirne la ricostruzione post-bellica , utilizzarono questo denaro per esportare anche il loro modello di vita: “The American Way of life”  un insieme di valori che oggi condividiamo con una ampia fetta di mondo , che unisce libertà, autodeterminazione e sana competizione.

Cinema, letteratura e arte erano gli strumenti del Smith Mundt Act che si affiancava allora alle nascenti organizzazioni mondiali come Onu, Fmi e Banca Mondiale.
Una strategia di Cultural Diplomacy che può essere ben compresa nelle sue applicazioni più estreme, come la leggenda che vede la Cia finanziare i grandi pittori americani come Pollock, Rothko, e De Kooning.

Vera o falsa che sia, questa ipotesi racconta bene la temperatura di un’epoca, in cui l’arte moderna veniva usata per costruire un simbolico contemporaneo e una narrazione capace di modellare le percezioni culturali, prima della vecchia Europa e poi del mondo intero.

La storia dell’arte racconta che quella generazione di artisti – forse finanziata dalla Cia – vinse il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1964 , per poi imporsi sul mondo intero , dando vita ad una nuova scuola di artisti internazionali che seguirono il modello americano o cercarono di ribaltarlo. Come gli italiani Alberto Burri e Piero Manzoni, oggi osannati dalla critica e dal mercato perché autentici interpreti di un anticapitalismo e di un anti-atlantismo di matrice italiana.

Molti altri esempi di intreccio tra arte e politica estera sono rintracciabili nella storia recente, passando dalla mostra Sculture in città , che si è svolta nel 1962 a Spoleto, grazie a cui l’industria dell’acciaio italiano finanziò opere mastodontiche dei migliori artisti americani per cercare accordi oltreoceano sulle materie prime, ma pensiamo anche all’esportazione del marchio del Louvre ad Abu Dhabi, grazie ad una strategia della Francia che, dopo la Brexit, sta lottando per sottrarre a Londra, a favore di Parigi il primato di capitale culturale d’Europa (consacrato dalla nascita della fiera Art Basel Paris).

Politica estera significa riconoscibilità, posizionamento e capacità di competere a livello internazionale con grandi potenze come la Cina e la Russia che, investono miliardi per produrre una nuova immagine di sé e ribaltare l’egemonia culturale americana (vedi Ucraina, Via della seta e Taiwan).

In questo scenario l’Italia per lungo tempo ha rinunciato a voler raccontare un’immagine di sé dinamica e rivolta verso il futuro, raccontandosi come un popolo custode di un passato schiacciante, che tutela, conserva e restaura ma che fa difficolta a scrivere nuovi capitoli della propria storia; solo di recente, con la presentazione del Piano Mattei, potrebbe emergere una forte opportunità che può essere colta in questo scenario.

A questo proposito la presidente Giorgia Meloni ha dichiarato di “voler costruire una linea di cooperazione che, si distanzi da quell’approccio predatorio che ha costituito fino ad ora il rapporto tra Occidente e Stati Africani”: una visione politica ed economica, priva però della gamba culturale.

Queste intenzioni potrebbero essere intese come propagandistiche, neocoloniali o come un mero desiderio di tutela dei propri interessi economici e politici (dall’energia all’immigrazione) ma, qualora inscritte in una politica culturale più ampia, potrebbe trasformarsi in una nuova visione a guida italiana, alternativa all’hypercapitalismo americano, alla storia di sfruttamento coloniale delle vicine potenze europee, o al cinismo e materialismo cinese.

Perché di fatto l’Italia è sempre sulla mezza via, a metà tra America e Unione Sovietica, tra Europa continentale e Mediterraneo, tra una visione di progresso imperiale, ereditata dall’impero romano e quella di missionariato spirituale, nata in seno alla Chiesa Cattolica.

Capire la propria posizione geografica e strategica, unica all’interno dello scenario mediterraneo, europeo e globale rappresenta una strada necessaria da percorrere per costruire una propria visione, alternativa e parallela a quelle dominanti: l’immagine di un’Italia che conosce quanto possa essere abbagliante il progresso fine a sé stesso ma che sa costruire industrie iper-specializzate di livello globale; un Paese che sa fare spazio alla creatività senza rinunciare alla professionalità.

Questa via italiana potrebbe ispirare altri Paesi che non vogliono sottostare a loro volta alla pressione della hyper-contemporaneità, e desiderano identificare un nuovo equilibrio su cui basare la propria crescita.

In particolar modo quei Paesi del Mediterraneo per i quali l’Italia, per ragioni meramente geografiche, fa da ago della bilancia. Ripensarsi mediterraneisti permetterebbe di rileggere la questione meridionale, non più come zavorra al progresso delle regioni del nord ma come baricentro geografico e culturale di una identità, condivisa con oltre venti Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum.

Ancora una volta l’arte contemporanea (se giocata secondo le regole internazionali) può venire in aiuto per sviluppare nuove narrazioni, esportando i migliori artisti italiani e importando artisti del bacino del Mediterraneo per riattivare uno scambio internazionale, riattivando, grazie al potere simbolico della cultura, il dialogo e la condivisione di nuove visioni.

 

 


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