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Senza le culture politiche trionfano i partiti personali. La versione di Merlo

Pur senza enfatizzare il ritorno della “democrazia dei partiti”, è forse anche utile ricordare che la politica non si può ridurre ad una sorta di “democrazia delle persone” che rischia, inconsapevolmente, di riproporre partiti dove comanda solo il capo e dove, soprattutto, la democrazia interna diventa un semplice optional

È come un gatto che si morde la coda. E cioè, se non ritornano le culture politiche – ovviamente aggiornate e riviste – è gioco forza che i “partiti personali” e “del capo” sono destinati a trionfare ancora per molto tempo. E questo non solo perché permane la cosiddetta personalizzazione della politica ma per la semplice ragione che se i partiti, o ciò che resta di loro, non hanno alcuna cultura di riferimento il tutto è riconducibile alla simpatia e alle fortune del capo partito stesso. E questo non può che certificare la crisi della politica e dei suoi strumenti democratici costituzionalmente previsti, cioè i partiti.

Per queste semplici ragioni il ritorno delle culture politiche è decisivo e quasi essenziale per la stessa qualità della nostra democrazia. Oltreché per la credibilità delle nostre istituzioni e per la stessa efficacia dell’azione di governo. Ma per poter centrare questo obiettivo, che è solo uno dei tanti modi per rilanciare e riqualificare la politica nel nostro Paese, non si può non invertire profondamente la rotta per quanto riguarda il profilo e la natura dei partiti politici. E cioè, per sintetizzare, trasformare i partiti da cartelli elettorali a soggetti dotati di una cultura politica di riferimento. Che resta l’unica condizione per far sì che i partiti siano in grado di elaborare un progetto di società senza limitarsi a rincorrere la spinte populiste e anti politiche che, purtroppo, hanno caratterizzato la loro concreta azione politica dopo il tramonto dei grandi partiti popolari e di massa del passato.

E questo perché un dato è sufficientemente oggettivo. Ovvero, i partiti possono tornare ad essere soggetti credibili ed affidabili nella misura in cui sono in grado di disegnare un progetto complessivo e, di conseguenza, di essere capaci di saper intercettare interessi diffusi nella società. Certo, i grandi partiti popolari ed interclassisti avevano la capacità di rappresentare i vari segmenti sociali, economici, professionali e culturali della società. E lo stesso astensionismo elettorale, seppur dettato da ragioni complesse ed articolate, può essere affrontato e potenzialmente arginato solo se si riesce a mettere in campo soggetti che non siano il banale prolungamento dei rispettivi capi e leader partito per essere, al contrario, espressione di pezzi società ed interpreti di precisi interessi sociali.

Ma questo è possibile se i partiti tornano ad essere semplicemente partiti. E cioè strumenti politici dotati di una cultura politica, di una classe dirigente autorevole e qualificata, di una visione della società e, infine, di un programma di governo. Insomma, per ridare qualità alla nostra democrazia, seppur mutatis mutandis, è necessario ed indispensabile che i partiti recuperino credibilità ed autorevolezza. E quindi, e di conseguenza, che torni anche e soprattutto il pensiero politico. E la cultura politica. E l’elaborazione culturale. E, infine, la progettualità politica.

Ecco perché, pur senza enfatizzare il ritorno della “democrazia dei partiti”, è forse anche utile ricordare che la politica non si può ridurre ad una sorta di “democrazia delle persone” che rischia, inconsapevolmente, di riproporre partiti dove comanda solo il capo e dove, soprattutto, la democrazia interna diventa un semplice optional.


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