Federica Saini Fasanotti, senior associate research fellow presso l’Ispi, ripercorre su Formiche la storia delle relazioni tra Russia e Libia. Il presente haftariano affonda le sue radici in epoca sovietica, con Mosca che cerca adesso di usare la Cirenaica come hub per i dispiegamenti africani. Le recenti notizie sui traffici di armi intercettati sono conseguenza attuale dei legami del passato
Osservare la Libia sul mappamondo ci può aiutare a comprendere molte cose: Paese gigante, per la maggior parte costituito da un deserto che si incunea nel Maghreb e che, poggiando sulla vasta fascia del Sahel, ha da sempre un valore strategico per la stabilità dell’intero scacchiere nordafricano. Dai suoi confini porosi sono transitati per secoli (e finora) carovane di mercanti, briganti e contrabbandieri.
Una consistente parte dei pochi abitanti del Fezzan, la regione desertica più a sud, vive da sempre di questo: armi, droga, petrolio (di cui la Libia è uno dei primi produttori al mondo), beni di prima necessità e uomini si muovono indisturbati su jeep da una nazione all’altra.
Da anni, infatti, buona parte delle rotte migratorie che partono dall’Africa subsahariana e che hanno come meta l’Europa passano proprio dalla Libia, con il beneplacito dei governi-fantoccio che si sono susseguiti dal 2012 in seguito al rovesciamento del suo dittatore Muammar Gheddafi.
Durante il periodo delle Primavere arabe che, come uno tsunami, ha investito tutta l’area chiamata Mena (Middle East and North Africa), anche Gheddafi, come la pedina di un domino, è stato spazzato via. In quei mesi burrascosi una parte dell’occidente – e del mondo arabo – si schierò a favore dei “ribelli” libici nel loro tentativo di rovesciare il regime che li aveva oppressi per 42 anni.
L’operazione alla fine riuscì, con buona pace della Russia che si era strenuamente opposta a qualunque tipo di intervento straniero: una scelta logica, quella di Mosca che invece aveva stabilito con Tripoli un rapporto più che cordiale sin dagli anni Settanta, quando Gheddafi aveva iniziato la sua campagna antiamericana.
Da allora i due Paesi avevano promosso molti accordi proficui, dall’industria pesante agli armamenti, e non solo: Gheddafi aveva richiesto un migliaio di ingegneri e istruttori militari sovietici per costruire nuove basi e preparare nuovi ufficiali.
Questo aprì la strada a migliaia di soldati russi che, secondo alcune fonti, parteciparono anche ad alcuni conflitti a fianco della Libia e, viceversa, molti ufficiali libici andarono a studiare in Russia in uno scambio che durò a lungo.
Dopo un periodo di relativo distacco negli anni Ottanta e Novanta – dato anche dal momento straordinariamente difficile vissuto dalla Russia – dal 2008 i rapporti tra i due Paesi ripresero all’insegna di nuovi accordi economici per un valore oscillante fra i cinque e i dieci miliardi di dollari, volti anche a sanare i debiti contratti da Tripoli nei decenni precedenti.
Si parlò allora di nuove forniture di armi per oltre un miliardo di dollari e di un contratto del valore di 4,5 miliardi di dollari per costruire un tratto di rete ferroviaria (di cui peraltro la Libia non è dotata ancora oggi) di oltre 550 chilometri tra Sirte e Bengasi, due città strategiche che si affacciano sul mar Mediterraneo.
In quei tempi, il rais offrì all’allora presidente Dmitry Medvedev il porto di Bengasi come base russa permanente, in funzione antiamericana (tutti ricordiamo i problemi tra Gheddafi e ogni inquilino della Casa Bianca). Ma i vantaggi più sostanziosi sarebbero andati al Cremlino, senza ombra di dubbio.
Già nel 2004 Lyle J. Goldstein e Yuri Zukov scrivevano che “il mar Mediterraneo e il mar Nero sono stati storicamente considerati da molte élite russe come un unico specchio d’acqua. Come potenza preminente del mar Nero, l’Unione Sovietica era costretta a estendere il suo peso nelle acque adiacenti”.
E, d’altro canto, nel 1959 l’ammiraglio Ivan Kasatonov, in un discorso all’equipaggio di un sottomarino attraccato a Valona durante il primo dispiegamento prolungato della Marina sovietica nel Mediterraneo, aveva avuto la sensazione che anche i suoi marinai avessero perfettamente compreso l’importanza di una presenza navale in quello scacchiere.
A rafforzare le parole di Kasatonov vi furono anche quelle di un altro grande ammiraglio: Ivan Kapitanets, il quale affermava che quella presenza era necessaria per difendere gli interessi della madrepatria. L’offerta di Gheddafi, quindi, non era così bizzarra e soddisfaceva le mire mediterranee della leadership moscovita, in barba alla stabile – e allora massiccia – presenza della Sesta flotta statunitense che in quelle acque rappresentava anche gli interessi strategici della Nato.
Non a caso le basi a sua disposizione erano parecchie: dalla Maddalena e Napoli in Italia a Rota in Spagna e Creta in Grecia. Fino al 1970 a vegliare sulle acque mediterranee c’era stata anche l’enorme base americana, questa volta aerea, di Wheelus in Tripolitania, attiva dal 1943 al 1970 e smantellata non appena Gheddafi aveva preso il potere.
Quella base oggi è conosciuta come il Mitiga international airport di Tripoli ed è presidiata da gruppi di milizie che si avvicendano tra una sparatoria e l’altra. Dopo il 2011 molte dinamiche sono cambiate, in primo luogo perché il Cremlino ha dovuto adattarsi alla nuova leadership emersa dalla rivoluzione libica e dal brutale omicidio di Gheddafi, che ha lasciato un vuoto finora incolmabile.
Vari governi, tenuti in vita artificialmente dalle Nazioni Unite e dalla loro missione per la Libia si sono succeduti, così come i diversi inviati speciali – quasi una decina – nessuno dei quali è riuscito ad arrivare alle tanto famigerate elezioni. Nel frattempo il Paese è sempre più in balia di bande armate e di una classe politica indegna di questo nome.
In Libia occuparsi di politica, nella maggior parte dei casi, significa fare i propri interessi. La ripresa dei rapporti russo-libici post-Primavere arabe risale al 2015, quando Abdullah al-Thani – allora primo ministro di quella parte del Parlamento che si era spostata a Tobruk in Cirenaica, in seguito alla seconda guerra civile dell’estate del 2014 – si recò a Mosca allo scopo di rilanciare relazioni bilaterali.
Da allora il Cremlino ha appoggiato il governo dell’est in tutti i modi, facilitando il business delle armi (a prescindere dall’embargo delle Nazioni Unite) e del petrolio (a prescindere dalle sanzioni post-invasione dell’Ucraina). Ma non solo: Mosca ha fornito per anni contractor in supporto del Libyan national army, un coacervo di milizie agli ordini del maresciallo di campo Khalifa Haftar, ex uomo (poi rinnegato) di Gheddafi e ora braccio armato dell’attuale governo della Cirenaica.
Quei contractor, prevalentemente organizzati nel famigerato Wagner group – di proprietà del poi assassinato Evgenij Prigožin – hanno rappresentato una pericolosa spina nel fianco per l’allora governo di Tripoli durante l’assedio del 2019-20. Grazie all’intervento della Turchia la guerra si è risolta in un nulla di fatto, ma i russi non hanno abbandonato le loro mire sulla Libia.
A testimoniarlo sono gli ancora ottimi rapporti con la leadership dell’est, che spesso vola a Mosca o ospita personaggi di spicco legati a Vladimir Putin. Il target ultimo, a prescindere dai benefici economici, sembrerebbe quello di aprire un fronte russo sul Mediterraneo, proprio grazie alla posizione strategica del colosso magrebino.
A riprova di questa tesi è anche il fatto che le spedizioni di armamenti dal porto di Tartus in Siria verso quello di Tobruk stanno aumentando, così come la presenza fisica russa che si aggirerebbe, secondo alcune fonti anonime locali, su 1.800 uomini distribuiti in diverse basi militari (alcuni dicono anche che si stia attrezzando un campo di addestramento nelle vicinanze di Bengasi).
La Russia non possiede una flotta mediterranea, ma è chiaro che lo scopo sia quello di avere alcuni porti libici a disposizione, così come potrebbero essere fondamentali gli aeroporti della Cirenaica per i sistemi di arma aerea russi che, a quel punto, si troverebbero di fronte all’Europa.
L’elemento più inquietante riguarda le nuove tecnologie di guerra: per agitare le acque dell’intero Mediterraneo, infatti, basterebbero poche squadriglie di droni, magari proprio iraniani: gli Shahed-136, detti Geranium in Russia, ad esempio, hanno una portata massima di 2.500 chilometri.
Puntare il centro di un compasso su Tripoli e Bengasi e calcolare il loro raggio d’azione mette i brividi. Negli ultimi mesi si è inoltre parlato di come la Russia aggiri le sanzioni imposte dal 2022 sulla vendita del petrolio proprio passando attraverso la Libia, per un giro d’affari di circa cinque miliardi di dollari con il beneplacito del maresciallo di campo Khalifa Haftar.
Questa serie di esempi rappresenta un chiaro campanello d’allarme delle potenzialità russe in un continente in cui le sanzioni e i paletti della comunità internazionale, in primis delle Nazioni Unite, faticano a essere applicati. Un particolare, questo, che al Cremlino non è sfuggito e di cui, partendo proprio dalla Libia, si sta largamente approfittando.
Formiche 203