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Nuove pandemie, a che punto siamo? La versione di Massimo Ciccozzi

La diffusione dell’influenza Aviaria e della Dengue suggerisce il potenziale rischio di una nuova pandemia. C’è, però, una minaccia ancora più insidiosa e nascosta: la resistenza antimicrobica. Conversazione con Massimo Ciccozzi, epidemiologo dell’Università Campus Bio-medico di Roma

Negli ultimi anni il salto di specie dell’Aviaria ha destato preoccupazione. Parimenti la diffusione della Dengue ha sollevato i dubbi degli esperti paventando il rischio della sua esplosione anche in Italia. Per comprendere la potenziale minaccia di questi virus per il nostro Paese e delineare le misure necessarie per una preparazione adeguata, ne abbiamo parlato con Massimo Ciccozzi, epidemiologo dell’Università Campus Bio-medico di Roma.

L’Aviaria ha fatto un salto di specie e la Dengue pare diffondersi oltre le previsioni. Quanto è concreto il rischio che si diffonda una nuova, o meglio, delle nuove pandemie?

Partiamo dal Covid-19. Il virus è endemico, il che significa che continua a circolare costantemente senza una stagionalità precisa, rendendo possibile il contagio in qualsiasi momento. L’aumento dei contagi può verificarsi quando le persone si assembrano maggiormente, ma anche se percentualmente i numeri possono sembrare elevati, si tratta di un incremento relativamente modesto. La presenza di varianti del virus è normale, poiché il virus muta continuamente; tuttavia, dal punto di vista evolutivo, queste varianti non sono necessariamente più contagiose o pericolose. Pertanto, ciò che abbiamo vissuto nel 2020 è improbabile che si ripeta.

E l’Aviaria?

L’Aviaria è un problema perché ha fatto il cosiddetto salto di specie dagli uccelli selvatici ai bovini per effetto di una mutazione. L’uomo può infettarsi a seguito di contatti diretti con animali infetti o con le loro escrezioni. Ad oggi, la trasmissione interumana non è stata dimostrata, ma il timore è che il virus dell’influenza Aviaria possa subire un’ulteriore mutazione che gli permetta di trasmettersi anche tra esseri umani. Il che rappresenterebbe un rischio significativo.

Per quanto riguarda la Dengue, invece, quanto è alto il grado di pericolo?

La Dengue ha causato gravi danni in Brasile con oltre tre milioni di contagi e più di 3.500 decessi, ma la sua diffusione è circoscritta prevalentemente ai Paesi tropicali e subtropicali. L’infezione è trasmessa all’uomo attraverso la puntura di una zanzara infetta del genere Aedes aegypti, considerata il vettore principale, e oggi ampiamente diffusa in tutte le regioni tropicali e subtropicali.

Attualmente in Europa non è presente questa specie di zanzara?

Tra il 1927 e il 1928, la Aedes aegypti giunse ad Atene, provocando un’epidemia di Dengue di grandi dimensioni, con un milione di contagi e circa mille decessi, per poi scomparire dal Mediterraneo. Ad oggi, sebbene il cambiamento climatico aumenti il rischio di diffusione, questa specie non risulta presente in Europa, anche se si sono registrati casi di Dengue trasmessi dall’Aedes albopictus, comunemente nota come zanzara tigre. In ogni caso, è bene ricordare che così come viaggiano le persone, viaggiano anche i virus e i vettori.

Dunque, non corriamo il rischio di una pandemia di Dengue delle stesse dimensioni del Covid-19?

Il rischio dipende in gran parte dal cambiamento climatico. Ma non è questo il tempo.

Si è parlato molto di “preparedness” nella risposta alle nuove emergenze sanitarie. Se nel prossimo futuro ci fosse una nuova pandemia, a che punto sarebbe l’Italia?

L’Italia dispone di un piano pandemico che può essere attivato in caso di necessità. L’Istituto superiore di sanità (Iss) svolge attività di sorveglianza costante. Abbiamo appreso molto dall’esperienza del Covid-19, quindi dovremmo essere più preparati. Tuttavia, soprattutto in previsione di eventi come il Giubileo, sarebbe cruciale avere un Osservatorio epidemiologico sia a livello regionale che nazionale che conduca attività di monitoraggio e prevenzione.

A che punto sono, invece, l’Europa e il resto del mondo?

In Europa si sta cercando di sviluppare un piano pandemico comune. Attualmente non esiste un Osservatorio specifico a livello europeo, a meno di non considerare l’Oms, che funge da osservatorio sia europeo che mondiale. In quanto raccoglie i dati da tutte le nazioni del mondo, comprese quelle europee.

Come si sta strutturando la cooperazione multilaterale per la risposta alle nuove pandemie?

La cooperazione c’è sempre stata, da anni. Durante il mio periodo all’Istituto superiore di sanità, ho assistito alla cooperazione tra l’Italia e altri Paesi, almeno dal punto di vista epidemiologico, come nei sistemi di sorveglianza dell’Hiv. Attualmente, ci sono collaborazioni e progettualità con i Paesi africani, specie del Nord Africa, ad esempio per monitorare i flussi migratori al fine di contenere il diffondersi di malattie come la Dengue.

A proposito di Hiv, sappiamo che in passato Stati Uniti e Cina hanno unito le forze per contrastare questo virus. Col Covid-19, però, non è accaduto lo stesso. Come si stanno strutturando le alleanze globali tra queste due superpotenze, sul piano della salute?

Mi auguro che invece di concentrarsi sugli interessi economici o politici queste nazioni si focalizzino sul bene e sulla salute delle persone. Se decidessero di concentrare tutte le loro risorse sul miglioramento della salute globale, potrebbero ottenere risultati significativi. È fondamentale che la geopolitica non interferisca con la cooperazione sanitaria internazionale.

Tra i principali temi del G7 c’è la resistenza antimicrobica. Può rappresentare una minaccia al pari delle epidemie virali di cui sopra?

Questa è la vera pandemia nascosta. Sappiamo come e dove agire, ma dobbiamo farlo con urgenza. Non si tratta solo di un problema di sorveglianza, ma anche di prevenzione. È fondamentale che i medici di medicina generale non prescrivano antibiotici se non strettamente necessari. Inoltre, è essenziale la formazione degli operatori sanitari in ambito igienico. Un altro aspetto fondamentale riguarda le multinazionali farmaceutiche che devono investire in nuovi antibiotici. Attualmente, abbiamo circa dodici antibiotici in fase sperimentale e solo uno sembra promettente. Siamo carenti di nuove molecole antibiotiche, e questa rappresenta una necessità impellente.


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