Non votare significa concorrere alla desertificazione al posto di provare, nel nostro piccolo, a mettere una bandierina di speranza. La rubrica di Pino Pisicchio
L’Europa dei 27 vede tre istituzioni al suo vertice: la Commissione, che svolge le funzioni di governo, il Consilium, una sorta di summit permanente composto dai capi di stato e di governo dei Paesi membri, e il Parlamento, unico organo elettivo che rappresenta il popolo europeo. Sulla carta tutti e tre gli organi hanno una dignità politica pari che, peraltro, è sancita dai Trattati. In concreto, però, la grande partita si gioca tra Commissione e Consiglio Europeo, riservando al Parlamento un ruolo meno forte e talvolta meramente ratificatorio. È questa una delle ragioni per cui la Legislatura che parte con il voto di oggi sarebbe da considerare decisiva ai fini della revisione dei Trattati e del rilancio di una Europa che sta perdendo il treno del nuovo ordine mondiale. Ma un parlamento europeo che venga eletto da una minoranza di cittadini europei avrebbe la forza necessaria per imporre il suo necessario protagonismo?
In realtà non c’è sondaggio in tutti i Paesi dell’Unione europea che non preveda un andamento declinante anche in questo giro elettorale per l’affluenza. Il che non è che conforti noi italiani, che siamo un po’ i late comer nel club degli astensionisti europei. Si pensi che partiamo da una partecipazione da plebiscito alle prime elezioni dirette, l’85,7% del 1979 (a fronte del 62% di media europea), mantenuta oltre l’80% nelle elezioni del 1984 (82,5%) e del 1989 (81,1). E se è vero che il decalage è cominciato con l’avvento della Seconda Repubblica (1994, 73,6%, 1999, 69,8%), è vero pure che fino al 2004 si è rimasti sopra ad un apprezzabile 70% (71,7%), per poi scendere inesorabilmente: 66,5% (2009), 57% nel 2014, 54,5% alle ultime del 2019.
Il concetto di democrazia partecipata è da tempo – almeno dall’irrompere del digitale nelle nostre vite e del parallelo diradamento della partecipazione al voto – oggetto di dibattiti e conati di reindirizzamento, a fronte di una radicale mutazione dei canoni interpretativi della realtà alla luce dei vecchi e nobili principi. Non c’è dubbio: una democrazia non partecipata, una democrazia “della minoranza”, che democrazia sarebbe? La questione è così drammaticamente attuale, anche nel nostro Paese, sia nel voto per l’elezione della rappresentanza locale (si ricordi il 62,8% di astenuti nel Lazio e il 58,32 dei votanti mancanti in Lombardia alle regionali del 2023, e presagi altrettanto bui si preparano per il voto locale di giugno), e preoccupa assai anche l’abbandono delle urne alle politiche. Provando a rovesciare il canone e a considerare l’area degli astenuti come quella di un partito, avremo un quadro alquanto inquietante: nel giurassico del 1948 il partito dei non votanti aveva la consistenza del 7,87%, registrando una partecipazione al voto pari a più del 92% e più o meno così andò fino al 1983, quando i non votanti si collocarono sotto al 12%. La divaricazione tra popolo e seggi elettorali cominciò a rendersi visibile con la seconda Repubblica, dopo l’avvento delle leggi elettorali maggioritarie e delle liste bloccate che non incentivavano una partecipazione attiva dell’elettore perché difettava la possibilità della scelta del rappresentante, già selezionato e bloccato dal partito. Fu così che si allestì una specie di marcia del Radetzky delle astensioni: dal 13,7% del 1994 (legge elettorale Mattarellum) al 18,8% del 2008 (legge Porcellum), al 24,8% del 2013, al 27,07% del 2018 (legge Rosatellum), al 36,09% delle ultime elezioni del 2022, che fecero registrare la partecipazione più bassa della storia della Repubblica.
C’è poi, nel declino generale dell’entusiasmo partecipativo, un vulnus ancora più cocente ed è quello della diserzione dalle urne da parte delle giovani generazioni: alle politiche del 2022 i ragazzi italiani in età tra i 18 e i 34 anni che hanno rinunciato al voto, nonostante il potenziale incentivo della novità offerta ai nuovi arrivati alla maggiore età del voto al Senato (prima consentito solo a partire dai 25 anni), sono stati quasi il 43%, una cifra che inquieta, se si pensa che trent’anni prima, nel ’92, i “disertori delle urne” erano stati solo il 9%. Chi ha una qualche consuetudine di dialogo con queste fasce generazionali sa bene che per lo più non si tratta di gesti “politici”, di protesta o di contestazione, ma, essenzialmente, di una pacata rimozione della voce “politica” dall’agenda personale dei ragazzi. Per la percezione, restituita da media digitali, diversi dalla tv e dalla carta stampata (quasi del tutto esclusi dal menù degli attingimenti giovanili), ma anche confermata dall’esperienza personale di ognuno di loro, dell’assoluta insignificanza del tema nella vita quotidiana dei cittadini. Terribile, no? Sarà interessante capire nei prossimi approfondimenti dei 2,7 milioni di nuovi elettori italiani che hanno ricevuto il certificato elettorale: sarebbe il 5,5% degli aventi diritto al voto e, probabilmente, qualcosa che somiglia al 10% dei voti effettivi.
Per adesso se qualche lettore di Formiche non è ancora andato al voto, decida se gli va di concorrere alla desertificazione oppure provare, nel suo piccolo, a mettere una bandierina di speranza.