Skip to main content

Come far fronte all’ascesa della Silicon Valley cinese. La ricetta di Terzi (FdI)

Nei piani di Pechino la Greater Bay Area di Guangdong-Hong Kong-Macao dovrebbe diventare il baricentro dell’innovazione mondiale entro il 2035. “Urge il cambio di rotta netto sulla dipendenza con la Cina, a fronte anche del G7 che ha tracciato una linea diversa rispetto al passato”, dice il senatore

Per molto tempo ci si è concentrati sull’ottimizzazione dei prezzi e dei profitti, sulla delocalizzazione aziendale nel nome di una nuova società occidentale dei servizi provocando di fatto uno spostamento drastico nel mondo del lavoro e generando migliaia di disoccupati. È quanto hanno scritto a febbraio Robert Lighthizer, già rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti nell’amministrazione Biden, e il professor Gordon Hanson, di Harvard, su Foreign Affairs.

È una sveglia anche per l’Europa, spiega l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, senatore di Fratelli d’Italia ed ex ministro degli Esteri. “Serve concretezza”, dice. “Così come la pace la si ottiene preparandosi alla guerra, ovvero rafforzandosi, costruendo legami ma pur sempre restando prudenti a non barattare mai la nostra sicurezza o la nostra economia, oggi serve una presa di coscienza in Europa: favorire la produzione locale non è autarchico, imporre dazi a chi non rispetta apertamente le norme internazionali non è protezionismo”.

Nel comunicato finale del G7, i leader citano ben 28 volte la parola Cina. Come interpretare questo messaggio?

Oltre che chiedere alla Cina di rivalutare e interrompere il suo appoggio alla Russia di Vladimir Putin così come ad agire, nei diversi campi e settori, secondo le norme dell’ordine internazionale, il G7 ha dei passaggi precisi che riguardano economia, commercio, imprese ma anche diritti umani. Le conclusioni del G7 sono delle direttrici fondamentali. Un cambio di passo molto netto nei confronti della Cina che deve essere letto attentamente. Il summit in Puglia ha evocato sanzioni allargate ad aziende cinesi. Non è detto che seguano atti adeguati ma è la prima volta che accade.

Nelle conclusioni del G7 è chiaro il riferimento alle politiche economiche distorsive della Cina, che generarono distorsioni globali e dannose sovraccapacità in una gamma crescente di settori. Che cosa ci dobbiamo aspettare da Pechino?

La situazione oggi è critica, i dati sulle sovraccapacità produttive cinesi devono essere un campanello di allarme. Un esempio: a fine 2025 la Cina sarà in grado di produrre 5,75 milioni di tonnellate di batterie, la domanda globale nel 2023 è stata poco più di 2,6 milioni di tonnellate. Ciò sostanzialmente significa un enorme squilibrio economico destinato a rimanere tale per tutto il decennio. Ma una strategia di eccesso di capacità produttiva che non è certo destinata a una domanda interna in aumento, è inspiegabile, apparentemente. Dico così perché in verità l’obiettivo è chiaro: si tratta di una predisposizione all’invasione di altri mercati, tra cui naturalmente quelli occidentali, e di una strategia per generare di fatto un processo di desertificazione delle industrie occidentali.

Siamo stati dormienti?

Sì, la Repubblica popolare cinese in trent’anni di globalizzazione è riuscita a rendersi indispensabile alle nostre economie, con l’obiettivo preciso di dominare le catene di approvvigionamento e condizionare le nostre scelte politiche e industriali. Nella prima stagione della transizione verde con pannelli fotovoltaici e pale eoliche, nella fase attuale con le auto elettriche.

L’Unione europea, seguendo la scelta dell’amministrazione Biden, ha imposto dazi sul settore automobilistico cinese. Le politiche verdi sono il nuovo campo di battaglia?

I dazi che Washington e Bruxelles hanno varato sono la reazione al fatto che tutta la nostra de-carbonizzazione è in ostaggio del made in China. L’aggressività cinese aumenterà sempre più. Proprio sulle politiche green, la Cina si è di fatto infilata, assicurandosi il controllo delle materie prime più indispensabili per la transizione. Così facendo Xi Jinping continua con le sue esportazioni a renderci sempre più dipendenti dalla Cina e, nel frattempo, costruisce una globalizzazione alternativa e sino-centrica in cui l’obiettivo fondamentale è la fusione civile-militare. È questo l’elemento di congiunzione tra il dominio economico accelerato dalle alte tecnologie e il dominio militare che si è sviluppato negli ultimi anni attraverso le alleanze con la Russia e l’Iran. Sono alleanze alla luce del sole. Nel comunicato G7 è espressamente chiesto alla Cina di cessare il trasferimento di materiale dual-use, compresi componenti e dotazioni militari, che viene poi utilizzato dalla Russia nella guerra di aggressione all’Ucraina.

Che fare, dunque?

Ci vorrebbe un’Unione europea determinata e coesa nei rapporti con la Cina, che sia in grado di cogliere certamente le opportunità di quel grande mercato ma che al tempo stesso non cada nella trappola dell’energia fornita da un solo monopolista. Legarsi alla Cina e considerarla partner essenziale nella transizione sul piano globale quando invece lo sappiamo, è un Paese che internamente non rispetta gli impegni della lotta contro i cambiamenti climatici, è un errore da non fare. Ricordo che lo scorso anno la Cina ha estratto 4,7 miliardi di tonnellate di carbone, con un aumento del 3,4% rispetto ai 12 mesi precedenti – dati della China National Coal Association – e che le importazioni nette di carbone sono aumentate del 63% a 470 milioni di tonnellate. È questa la Cina green?

Da dove partire?

C’è un ragionamento politico da fare obbligatorio quindi. L’Europa, per Xi, è una terra di conquista, un luogo in cui fare profitti ed esercitare pressioni e influenze politiche. Un luogo ideale per vendere migliaia e migliaia di auto elettriche nel solco del nostro Green Deal e della mobilità sostenibile. Urge un ragionamento politico da parte nostra, sì. Sarà pur vero che l’auto elettrica è a zero emissioni, ma se tutti i suoi componenti in Cina vengono lavorati, raffinati, prodotti con le centrali a carbone, non staremo inquinando di più, oltre che divenire sempre più dipendenti? Per alcuni l’auto elettrica è l’unica soluzione percorribile per la decarbonizzazione, anche a costo di sacrificare intere filiere industriali e produttive.

È una critica all’Unione europea?

Ci sono diverse incongruenze nell’Unione europea. Sulla mobilità green, Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, ha più volte sottolineato la necessità di virare rotta, distanziandosi per esempio da quella scelta fortemente ideologica di imporre lo stop alle auto a combustione dal 2035 in Europa. Nel 2035, ci saranno cittadini che potranno permettersi di comprare un’auto elettrica, altri – molti – continueranno a usare vecchi modelli inquinanti. Quest’ultimi, nell’ottica di limitare i danni all’ambiente, perché non possono utilizzare la stessa auto con un carburante molto meno inquinante? Non possono perché l’Unione, per rigidità ideologica, non contempla nella transizione verde i biocarburanti, combustibili su cui l’Italia nella produzione, per altro, è all’avanguardia.

Dunque, come se ne esce?

Va considerato l’intero ciclo del prodotto. L’estrazione di minerali e metalli indispensabili per le batterie delle auto elettriche o dei pannelli fotovoltaici avviene per lo più nei Paesi africani – sotto il controllo russo e cinese – per poi passare alla lavorazione e raffinazione direttamente in Cina. Chiaramente, in queste attività “a monte” non c’è nulla che sia decarbonizzato, inquineremmo molto meno se li effettuassimo da noi. Ma questo è il gioco della Cina.

Un esempio concreto della strategia industriale cinese?

Basti pensare alla Greater Bay Area di Guangdong-Hong Kong-Macao – molti la considerano una Silicon Valley cinese – che entro il 2035 dovrebbe diventare, secondo i piani di Pechino, il baricentro dell’innovazione mondiale. Rientra a pieno nella ben nota Belt and Road Initiative ed è indubbiamente parte del disegno del Partito comunista cinese che mira a raggiungere il primato mondiale tecnologico e ad accelerare la fusione civile-militare con evidentissime finalità di supremazia strategica. Non è certamente un caso il fatto che il 2017, anno di lancio della Greater Bay Area, abbia coinciso con un ulteriore impulso alla militarizzazione delle isole cinesi artificiali del Pacifico in modo sempre più aggressivo nei confronti di quei paesi che avrebbero perso così la capacità di esercitare i diritti sulle zone di sfruttamento economico esclusivo. Ha coinciso, per altro, anche con il netto rifiuto di rispettare la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel contenzioso con le Filippine del 2016. La Greater Bay Area costituisce quindi una gigantesca piattaforma di proiezione nel Pacifico basata sia sulla componente continentale che su quella marittima del Mar Cinese Meridionale. A fronte della minaccia di Pechino, di aree destinate – se non facciamo nulla – a divorare le nostre economie, urge il cambio di rotta netto sulla dipendenza con la Cina, una revisione profonda – sempre in chiave sostenibile ma nettamente più realistica – del Green Deal e un convincimento generale – a fronte anche del G7 che ha tracciato una linea diversa rispetto al passato – che è necessaria una nuova visione politica.

×

Iscriviti alla newsletter