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Cosa insegna il caso Mali sulle fake russe e cinesi. Parla Caniglia (Atlantic Council)

La missione Onu in Mali lo dimostra: è fondamentale una comunicazione strategica per evitare di lasciare spazi alle info-op di Mosca e Pechino, dice l’esperto dell’Atlantic Council. “L’Italia deve prendersi più responsabilità su alcuni dossier, per esempio l’Africa”

Oggi i governi occidentali hanno bisogno di una comunicazione strategica per far fronte alla disinformazione, o Fimi (Foreign information manipulation and interference), di attori statali come Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. A spiegarlo è Mattia Caniglia, associate director for capacity building del Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council.

Perché c’è questo bisogno?

La missione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) lo dimostra. Chiaramente la sua chiusura è legata a diverse dinamiche ma Minusma è anche stata presa nel mezzo di una serie di sforzi di information operation e disinformazione da parte di Russia e Cina nel Sahel, che hanno alimentato un sentimento antioccidentale e spinto su narrative che dipingono gli attori internazionali occidentali presenti come neocolonialisti, facendo leva su una preesistente e in alcuni casi legittima preoccupazione della popolazione locale. In quel caso una comunicazione strategica volta a spiegare l’impatto positivo della missione avrebbe potuto fare la differenza.

L’Occidente si sta attrezzando?

Negli ultimi cinque anni, la Nato e l’Unione europea hanno mostrato una maggiore propensione verso un nuovo e più completo approccio alla comunicazione strategica. Se ci guardiamo indietro vediamo, come da un punto di vista istituzionale, gli sforzi iniziali volti a combattere il fenomeno della disinformazione e della Fimi sono arrivati con strumenti come debunking e fact-checking. Soltanto negli ultimi anni abbiamo visto utilizzare di più misure proattive come gli strumenti di open source intelligence e forensica digitale per condurre investigazioni e per contrastare disinformazione e tentativi di manipolazione esterna. Che è quello che facciamo noi al Digital Forensic Lab dal 2015. Sta cambiando finalmente l’approccio.

In che modo?

Non è più rivolto solo al proiettile, ovvero alle operazioni informative che colpiscono le nostre società cioè alla disinformazione, ma alla pistola, a chi la usa e a dove l’ha comprata, ovvero a tutte le dinamiche strategiche, tattiche ed economiche che ci sono dietro la disinformazione. L’approccio cambia anche perché stanno cambiando la disinformazione e gli sforzi di manipolazione straniera, che sono oggi caratterizzate da processi di privatizzazione e militarizzazione che hanno rispettivamente nel gruppo Wagner e nella V divisione dell’FSB due chiari esempi. Non dobbiamo combattere la battaglia sui contenuti bensì sul modus operandi degli attori ostili. E questo approccio sta iniziando ad attecchire, anche in ambito Nato, con gli sforzi di comunicazione strategica preventiva per fronteggiare la disinformazione e proteggersi da possibili manipolazioni.

Che cos’ha fatto l’Unione europea?

In questi ultimi anni lo StratCom del Servizio europeo per l’azione esterna, ovvero la diplomazia dell’Unione europea, ha fatto molto per il contrasto alla Fimi, tra le altre cose anche rafforzando la squadra di data scientist ed esperti di open source intelligence. Una buona fetta del merito va a Lutz Güllner, capo delle comunicazioni strategiche. La sua recente nomina a rappresentante a Taipei è sicuramente un premio per il lavoro svolto data l’importanza del nuovo incarico ma è anche un importante segnale strategico dell’Unione europea, anche forse nei confronti degli Stati Uniti.

A che punto è il cosiddetto divario strategico?

Il cosiddetto divario strategico è diminuito come conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina. Rimangono, però, distanze sulla disinformazione e sulle minacce ibride. Ci sono Paesi che possono vantare una lunga esperienza e delle strutture organizzative e strategiche per far fronte a queste minacce, come Svezia, Baltici, Polonia ma anche il Regno Unito. Altri stanno recuperando terreno, come la Francia che ha tre anni fa ha lanciato Viginum, agenzia per contrastare l’utilizzo delle influenze e manipolazioni straniere come strumento di destabilizzazione politica. In altri, invece, c’è una consapevolezza della minaccia inferiore anche a causa di una scarsa volontà politica. Da noi alcuni passi nella giusta direzione sono stati fatti, ma in quest’ultima categoria c’è anche l’Italia. Inutile dire che un’Unione europea a diverse velocità nel combattere questa minaccia, che è borderless per definizione, rappresenta una fragilità.

Esiste un coordinamento tra gli attori ostili della disinformazione?

Sicuramente tra attori come Russia, Cina e Iran si nota un forte opportunismo nell’approfittare delle narrative altrui. Basti pensare agli sforzi cinesi per alimentare le narrazioni russe sul declino dell’Occidente e del sistema internazionale. Tuttavia, non possiamo parlare, almeno per ora, di vero e proprio coordinamento.

Non esiste il rischio che la comunicazione strategica sfoci in propaganda e finisca per essere presa come “la verità autorizzata”?

Inevitabilmente, in Occidente queste discussioni rischiano di finire nell’agone politico. Ma è importante evidenziare che la comunicazione strategica non deve divenire propaganda. Per questo, è fondamentale sia che i governi si aprano verso fonti indipendenti sia che la politica dimostri un forte senso di responsabilità. Perché nel mondo di oggi incoerenza e mancanza di responsabilità in politica estera diventano più che mai fragilità da cui attori ostili hanno imparato a trarre il massimo profitto.

Gli Stati Uniti stanno perdendo influenza nel mondo. Come far fronte a questa situazione?

Non siamo più negli anni Novanta: gli Stati Uniti e il blocco occidentale perdono influenza. E con questi anche l’Unione Europea: basti pensare al Digital Services Act, che potrebbe non avere lo stesso impatto sul sistema internazionale del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) che pur è di soltanto 8 anni fa. In una situazione così complessa, servono organizzazioni ad hoc per la comunicazione strategica e nuove narrative positive. Non possiamo pensare che, davanti a militarizzazione e privatizzazione della disinformazione e delle influenze straniere, esista una soluzione miracolosa. Servono input a livello governativo e nuove sinergie con molti attori diversi: i media, la società civile. Sono proprio questi attori che hanno la possibilità, da un lato, di vigilare sugli sforzi messi in atto dai governi, per evitare derive che ledano la libertà di opinione, e che dall’altro possono contribuire a combattere la disinformazione e alzare il livello di alfabetizzazione mediatica.

Ha citato prima l’Italia. Che cosa può fare oggi?

In un mondo multipolare, l’Italia deve prendersi più responsabilità su alcuni dossier, compresi l’indirizzo politico e geopolitico. Per esempio, servono nuove narrative coinvolgendo anche partner come l’Africa, che è al centro dell’agenda della presidenza italiana del G7. Come dicevo, qualcosa si muove, ma bisogna essere consapevoli che le nostre iniziative non godono di credibilità illimitata.

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