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Contrasto globale all’antimicrobico resistenza. A che punto è l’Italia? Parla Andreoni

Per contrastare la minaccia dell’antimicrobico resistenza, molti Paesi hanno già implementato sistemi di incentivazione “push & pull”. Sebbene abbia sviluppato due Piani nazionali di contrasto all’antimicrobico resistenza, l’Italia resta indietro rispetto a tali iniziative. È, pertanto, un dovere etico e morale seguire l’esempio di altre nazioni. La versione di Massimo Andreoni, professore emerito di malattie infettive dell’Università Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit)

Il contrasto all’antimicrobico resistenza (Amr) e la prevenzione alle infezioni correlate all’assistenza sanitaria rappresentano sfide cruciali per la salute globale. La complessità del processo di innovazione terapeutica unita alle stringenti normative regolatorie del settore rende l’investimento in nuovi antibiotici estremamente rischioso e poco redditizio per le aziende farmaceutiche. È evidente, quindi, l’urgenza di soddisfare il significativo unmet need clinico rendendo più attrattiva la ricerca e sviluppo di nuovi antibiotici, in particolare quelli di tipo “reserve”. Ne abbiamo discusso con Massimo Andreoni, professore emerito di malattie infettive dell’Università Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit).

L’antimicrobico resistenza (Amr) è una delle principali sfide sanitarie globali del nostro tempo. Perché è diventata un’emergenza?

Che si tratti di un’emergenza globale è ormai innegabile. Secondo l’Oms, entro il 2050 l’Amr diventerà la prima causa di morte nel mondo, con oltre 30 milioni di decessi annui.

Causati da?

Le infezioni correlate all’assistenza sanitaria causate da germi resistenti agli antibiotici sono direttamente responsabili di almeno 1,3 milioni di decessi all’anno. Se consideriamo le cause indirette, il numero sale a 4,5 milioni. Queste cifre evidenziano l’urgenza di affrontare la problematica a livello globale. Motivo per cui l’Oms sollecita tutti gli Stati ad adottare efficaci misure di contrasto.

E in Europa?

Si stima che circa 35mila persone – di cui un terzo in Italia – muoiano ogni anno a causa di infezioni nosocomiali da germi multiresistenti. L’Italia, seconda solo al Portogallo, presenta uno dei tassi più alti, pari a circa l’8,2%. Il che evidenzia una problematica estremamente rilevante nel nostro Paese, dato che non solo contribuisce alla morbilità e mortalità, ma ha anche un notevole impatto economico sul sistema sanitario pubblico.

Ovvero?

Stando a quanto riportato dallo European centre for disease control (Ecdc), le infezioni correlate all’assistenza comportano un incremento delle giornate di degenza ospedaliera che variano dalle 600mila ai 2,6 milioni. Il che comporta notevoli implicazioni sia in termini di occupazione dei posti letto, che potrebbero altrimenti essere destinati ad altre patologie, sia in termini di costi. Si stima infatti che il costo annuo derivante da queste infezioni vari tra 400 milioni e 1,5 miliardi di euro. Inoltre, i costi indiretti legati alla perdita di produttività in Italia sono stimati tra i 270 milioni e 1,4 miliardi di euro.

Cosa sta facendo l’Italia?

Attualmente le azioni sono piuttosto limitate. Nonostante siano stati sviluppati due Piani nazionali di contrasto all’antimicrobico resistenza (Pncar) – uno per il triennio 2017-2020 e un altro per il quadriennio 2022-2025 – i risultati non sono molto soddisfacenti.

Come mai, secondo lei?

Sebbene i piani siano validi nella loro progettualità, si è fatto molto poco in ambito umano. Al contrario, nell’ambito della medicina veterinaria sono stati fatti notevoli progressi grazie all’approccio one health promosso dai piani nazionali. Negli ultimi mesi, il ministero della Salute ha stanziato 40 milioni di euro per un progetto di formazione del personale sanitario per ridurre il rischio di trasmissione delle infezioni negli ospedali. Tuttavia, sono necessari ulteriori interventi. È in corso una discussione con il ministero della Salute e il ministero dell’Economia e delle finanze riguardo alla possibilità di introdurre interventi legislativi per il controllo delle infezioni correlate all’assistenza sanitaria.

Di che tipo?

Da un lato, è fondamentale creare un’anagrafe nazionale delle infezioni da germi multiresistenti per conoscere l’esatta numerosità dell’incidenza del fenomeno nel Paese. Dall’altro, è necessario conferire ai direttori generali degli ospedali l’obbligo di attuare misure e interventi specifici per migliorare la situazione all’interno delle loro strutture, ad esempio inserendo le infezioni correlate all’assistenza da germi multiresistenti nei Livelli essenziali di assistenza (Lea).

La comunità scientifica, inclusa la Società italiana di malattie infettive di cui sono il direttore scientifico, chiede che vengano attuati interventi legislativi per contrastare efficacemente il problema, in linea con le raccomandazioni dell’Oms.

Cosa sono gli antibiotici reserve?

L’Oms utilizza la classificazione AWaRe degli antibiotici, che li divide in tre gruppi: Access, Watch e Reserve. La prima categoria include antibiotici che possono essere utilizzati abitualmente, destinati alle infezioni comuni, la seconda comprende antibiotici raccomandati per sindromi infettive specifiche; la terza riguarda gli antibiotici da utilizzare solo come ultima chance terapeutica in situazioni estremamente critiche. Questa classificazione mira a preservare l’efficacia degli antibiotici, con l’intento di ritardare eventuali resistenze, ma genera un effetto distorsivo.

Quale?

Che le aziende farmaceutiche che investono per produrre nuovi antibiotici hanno un ritorno economico talmente basso da dissuaderle a fare ulteriore ricerca.

La sostenibilità economica rappresenta una grossa sfida per le aziende farmaceutiche, soprattutto nel campo degli antibiotici…

La sfida principale è rappresentata dalla scarsa redditività associata agli investimenti farmaceutici. Senza incentivi adeguati, le aziende potrebbero essere riluttanti a sviluppare farmaci per patologie con una prevalenza molto bassa, poiché il ritorno economico sarebbe insufficiente a giustificare l’investimento. È essenziale, quindi, che le politiche pubbliche garantiscano un ecosistema favorevole alla R&S, mantenendo una protezione adeguata dei brevetti e offrendo incentivi economici. Ciò può includere la compartecipazione ai costi di sviluppo.

È già accaduto in passato?

Certo, un caso emblematico è quello del finanziamento pubblico per i vaccini contro il Covid-19 sostenuto dall’amministrazione americana.

Molti Paesi hanno messo in atto sistemi di incentivazione push & pull. In che modo contribuiscono alla Ricerca?

Vero, molti Paesi, di cui alcuni europei. Ma non l’Italia.

Ovvero?

Il nostro Paese non ha strategie specifiche per promuovere la produzione di nuovi antibiotici. Sono in fase di valutazione strategie “push”, ma è fondamentale proporre facilitazioni economiche per i farmaci innovativi, al fine di rendere redditizio l’investimento. Questo è particolarmente rilevante per i farmaci che rispondono ai cosiddetti “unmeet medical needs”, ossia i bisogni medici non soddisfatti. In Italia, solo un antibiotico ha ricevuto il riconoscimento di innovatività.

Cosa potremmo fare?

Semplificare il processo di valutazione dell’innovatività per gli antibiotici, basandosi sul principio per cui un antibiotico capace di contrastare germi resistenti dovrebbe essere automaticamente considerato innovativo. Attualmente, il riconoscimento di innovatività è limitato a 36 mesi; trascorso questo periodo, il farmaco perde tale caratteristica. Si richiede, invece, che tutti gli antibiotici inseriti nella classe “reserve” vengano automaticamente giudicati innovativi e che tale status sia mantenuto per l’intera durata della copertura brevettuale.

E cosa garantisce lo status di innovatività?

Un finanziamento dedicato, separato da quello per i farmaci generici. I farmaci nella classe reserve sono pochi e il budget annuale per i farmaci innovativi presenta un residuo inutilizzato di circa 300 milioni di euro… L’Italia purtroppo è in ritardo rispetto a molti altri Paesi europei e occidentali. E rischiamo anche che il nostro mercato diventi poco attraente per le industrie farmaceutiche, con la conseguente mancanza di farmaci salvavita necessari per trattare pazienti con infezioni gravi.

Che propone?

Come già detto, si potrebbe utilizzare un fondo di cassa non ancora impiegato.

Un ultimo consiglio…

Siamo gli ultimi in Europa. Adottare misure che altri Paesi hanno già implementato è un dovere etico e morale nei confronti dei nostri cittadini.

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