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L’intolleranza forma di potere: la divisione nelle parole nasconde l’inadeguatezza. Scrive Caligiuri

L’odio sui social come raffinata forma di potere, la crisi della verità e le disuguaglianze sociali: una riflessione sulle dinamiche contemporanee di Mario Caligiuri. L’autore ha presentato il suo ultimo saggio, “L’Intolleranza come potere. Le strategie per il controllo della mente: un’analisi di intelligence” edito da Santelli con la presentazione di Luciano Violante, al Premio Bancarella 2024, nella cornice del Palazzo Dosi Magnavacca a Pontremoli, alla presenza del sindaco Jacopo Ferri e di Cosimo Maria Ferri, già sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. Il libro è stato introdotto dal vice capo vicario della Polizia, Vittorio Rizzi, e le conclusioni sono state tratte da Paolo Liguori

Il recente attentato a Donald Trump ha riproposto in modo clamoroso, ma non inatteso, il tema intolleranza e del linguaggio d’odio nel dibattito pubblico globale. È una dimostrazione evidente che gli insulti sui social si possono trasformare non raramente in realtà.

Da anni stiamo assistendo a un crescendo che sembra inarrestabile. Dal mio punto di vista, l’intolleranza rappresenta non soltanto un fenomeno sociale dilatato dalla Rete ma una raffinata forma di conquista e mantenimento del potere. Ci si divide soprattutto sulle parole più che nei comportamenti concreti del potere, che sono in gran parte omogenei. Secondo me, occorre riflettere sul concetto del capro espiatorio su cui si fondano, secondo alcune interpretazioni, i meccanismi sociali.

L’antropologo francese Renée Girard nel 1978 ha pubblicato un libro che ha fatto molto discutere “Delle cose nascoste sin dall’inizio del mondo”, titolo che richiama un versetto del Vangelo secondo Matteo. Girard sostiene che il “meccanismo vittimario del capro espiatorio” è alla base della nascita della nostra civiltà. La morte di Cristo, che si immola per mondare i peccati del mondo, è al principio della storia e della cultura occidentali.

Se facciamo riferimento alla storia recente del nostro Paese, esistono vicende che, per alcuni aspetti, potremmo ritenere emblematiche. Avere messo a testa in giù Benito Mussolini a Piazzale Loreto a Milano è stata una modalità attraverso la quale si è ritenuto di fare i conti con il fascismo. Constatare che Bettino Craxi è morto ad Hammamet significava rompere i meccanismi della corruzione nazionale. Espellere Luca Palamara dalla magistratura rappresentava regolare le conflittuali dinamiche tra politica e magistratura. Esempi molto diversi ma che sembrano confermare come ci sia bisogno di vittime per consentire che la società possa proseguire senza intaccare i meccanismi di fondo.

Stiamo assistendo a quella che il filosofo Byung-Chul Han definisce “la crisi della verità” che è davanti agli occhi di tutti ma pur esprimendola non determina nelle società occidentali alcuna conseguenza. Infatti, stiamo vivendo un’epoca di straordinario autoinganno dove la verità sta da una parte e la percezione pubblica della verità esattamente dall’altra. Di fatto, viviamo nella società della disinformazione che si manifesta in modo molto preciso: con la dismisura dell’informazione da un lato e il basso livello di istruzione dall’altro. Questo determina un corto circuito cognitivo che allontana le persone dalla sempre difficile comprensione della realtà.

Il nostro Paese ha punti di forza e di debolezza. Tra questi ultimi la crisi demografica che indebolisce la ricchezza del Paese, la difficoltà di scuole e università che incidono pesantemente sull’economia e la democrazia, la penetrazione delle mafie che rende sempre più indistinguibile l’economia sana da quella malata. In questo quadro, è urgente riflettere sul disagio sociale che, superato il livello di guardia, potrebbe presto rappresentare anche nel nostro Paese non solo un problema di ordine pubblico quanto di stabilità e credibilità delle istituzioni democratiche.

Le disuguaglianze sociali, esplose in modo drammatico in Italia soprattutto negli anni Settanta, sono purtroppo ancora presenti, seppur in forme diverse. Potrebbe allora diventare altamente probabile che le classi politiche accentuino gli scontri verbali per spostare l’attenzione sulla loro inadeguatezza ad affrontare i problemi reali e che tra i cittadini si accentuino le tendenze verso l’intolleranza verso i propri simili e verso l’autorità.

Non a caso, Giulio Azzolini in “Dopo le classi dirigenti” ammonisce: “Alla lunga il problema non sarà stabilire chi o come, di volta in volta, debba comandare, ma chiedersi se, e in tal caso come mai, qualcuno sarà ancora disposto ad obbedire”.


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