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Cina, Stellantis, Kkr. Il luglio della politica italiana sotto il sole di Pechino

Di Gianluca Zapponini e Emanuele Rossi

​Accordi con il Dragone su settori a dir poco strategici per le relazioni con Washington, le barricate sull’operazione Stellantis-Comau e il blitz del Pd sulla vendita della rete di Tim a Kkr. Mettendo insieme i pezzi, pare quasi che l’Italia voglia mettere alla porta gli investimenti degli Stati Uniti. C’è da sperare che sia, solo, una clamorosa svista

A qualcuno potrebbe sembrare una sbandata. Ma a voler mettere insieme le diverse tessere del mosaico, sembrano davvero troppi gli elementi per poter parlare di semplice incidente di percorso. La verità è che la settimana che si avvia alla conclusione ha sancito un pericoloso disequilibrio verso un anti-americanismo (non è chiaro quanto voluto) sul versante italiano. Preoccupante se si considera tutto il valore strategico e la consistenza delle relazioni tra Roma e Washington. Ma i fatti parlano e forse qualche domanda occorre farsela. Tutto parte dalla trasferta italiana in Cina e arriva a Stellantis, passando per la cessione della rete Tim a Kkr.

Tanto per cominciare, dunque, c’è la visita di Giorgia Meloni in Cina, che proprio oggi si conclude (qui l’intervista all’economista Alberto Forchielli). L’Italia, al netto dei tappeti rossi d’ordinanza e dei sorrisi per la stampa, ha portato a casa una serie di accordi bilaterali funzionali al business ma rischiosi per tutti quei settori che da sempre sono considerati più sensibili nel rapporto tra Italia e Stati Uniti, oggetto di attenzioni speciali dell’Ue, e più in generale nelle relazioni atlantiche. Ovvero, auto elettriche, Intelligenza Artificiale, green economy. Che occorresse valutare con attenzione il contesto è stato il messaggio attorno a cui si è dipanato l’intero speciale che Formiche.net ha dedicato alla missione cinese. Le ragioni sono evidenti a valle della visita, tanto più se messe a sistema.

Partiamo dalle auto elettriche: la Cina, con i suoi veicoli verdi venduti a un prezzo inferiore del 40% rispetto all’asticella del mercato (anche grazie agli aiuti statali), sta cannibalizzando il comparto della mobilità elettrica. È giusto aiutarla in questa missione che passa dall’overcapacity e tocca anche altre sfere ultra sensibili? Qui la questione però supera il contesto meramente commerciale: il problema è che quelle auto elettriche sono contenitori di dati. Collettori, ossia, di informazioni raccolte tra i consumatori europei — nello specifico italiani.

È questo il tema sicurezza che riguarda i cosiddetti “EV”, perché quei dati una volta finiti in mano ai raccoglitori finali potrebbero essere utilizzati per tutto. E qui la domanda è: chi li gestisce? È questo il fattore cruciale che accomuna EV e 5G, perché come con le telecomunicazioni il tesoro sono proprio quei dati, e il problema è il rischio che essi finiscano in mano a strutture che possano gestirli per utilizzi malevoli, perché in Cina sia il settore industriale che quello commerciale sono strettamente collegati al Partito/Stato e alle sue strategie. E tra queste, nell’ottica di disarticolare il modello di governance occidentale degli affari globali, c’è anche la volontà di costruire narrazioni e campagne di disinformazione, che in quei dati troverebbero oro — perché ogni informazione sugli stili di vita può essere utile, e il valore dei big data non vale nemmeno la pena sottolinearlo ormai, se non per ragionare su quanto tecnologie come l’AI generativa possano produrre effetti esponenziali se collegati a essi.

E che dire della lotta al cambiamento climatico sbandierata dalla Cina, che rimane pur sempre il primo Paese al mondo per emissioni di gas serra? Anche qui, non c’è solo l’incoerenza politica sulla volontà di non-gestire uno dei grandi dossier che fanno costantemente parte delle volontà congiunte tra potenze, su cui anche Pechino cerca di dimostrarsi responsabile (vedere l’incontro Blinken-Wang), ma torna anche in questo caso la questione dati. Tutto ciò che contiene qualcosa in grado di registrare informazioni, come nel caso i sistemi fotovoltaici per esempio, andrebbe attenzionato da processi di de-risking — commerciali e politici, appunti, perché i due piani ormai non sono più separabili.

Finita qui? Nemmeno per sogno. Altra questione, Stellantis. L’ex Fiat, oggi tra i primi costruttori mondiali dopo la fusione con Psa, ha da poco annunciato la vendita di Comau, gioiello italiano dell’automazione industriale, al fondo americano One Equity Partners. Due premesse: primo, questo tipo di operazione Stellantis l’aveva già messa a terra nel 2019 con la cessione di Magneti Marelli e sempre a un fondo statunitense. Secondo, l’operazione era stata ampiamente annunciata nell’ambito della strategia industriale del gruppo guidato da Carlos Tavares. Nessuna sorpresa, insomma, tutti un po’ sapevano. E invece no, per il governo italiano il problema c’è.

Tanto che a Palazzo Chigi, di sponda con il Mimit, si starebbe pensando di far valere le regole del golden power per la protezione delle imprese considerate strategiche. Di più, sul tavolo ci sarebbe anche l’ipotesi di una mancata comunicazione da parte della stessa Stellantis, con conseguente possibilità di multa Antitrust. Come a dire che gli americani sono pericolosi e che quindi è meglio bloccare tutto, se possibile. Non è ancora finita. Nella settimana un po’ pazza italiana entra anche la recente cessione della rete di Tim a Kkr, altro fondo statunitense.

Premesso che l’operazione è ampiamente conclusa, con tanto di placet di analisti e autorità competente, il Partito Democratico ha deciso di entrare a gamba tesa con un’interrogazione parlamentare rivolta al Tesoro (azionista in tandem con lo stesso fondo nella nuova società della rete), ministero del Lavoro e lo stesso Mimit. Motivo? A preoccupare i dem è la forte partecipazione estera della rete (circa 23 milioni di chilometri) e la possibilità che tutto questo si ripercuota sulle tasche dei consumatori. E pensare che, parola del consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, Jake Sullivan, intervistato poche settimane fa dal Corriere, gli Usa sarebbero anche ben disposti a investire di più in Italia. Se qualcuno voleva dire agli americani di farsi da parte e di mettere alla porta i loro investimenti, forse ci sta riuscendo. Cui prodest?

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