La Commission on the National defense strategy, indipendente e bipartitica, ha rilasciato un rapporto assai preoccupante: gli Usa non sono mai stati così militarmente impreparati, mentre cresce la minaccia russo-cinese. Un’analisi su cui soffermarsi, anche in ottica Italia
Gli Usa sono l’unica potenza militare di respiro veramente globale e, con un budget annuale intorno ai 900 miliardi di dollari, sono lo Stato più militarmente potente al mondo. Ma non basta: le strategie a stelle e strisce sono inadeguatamente datate, e gli Usa non sono mai stati così impreparati a confronti militari, proprio quando il pericolo è maggiore. Questo è il senso del rapporto della Commission on the National defense strategy (Nds), commissione indipendente, e nominata pariteticamente da democratici e repubblicani, chiamata ciclicamente a esprimersi sulla strategia di difesa nazionale Usa (in questo caso, quella del 2022), nonché sulla relativa applicazione. La Commissione analizza come la potenza degli Stati Uniti non sia cresciuta parimenti alle minacce (Cina, Russia, Iran e Nord Corea), ma si sia invece atrofizzata, quantomeno in termini di base industriale, fondi e di supporto dell’opinione pubblica.
Perché ci riguarda da vicino
Oltre alla questioni particolari (i.e., underwater e export), capire davvero il senso di questo rapporto, ed osservare le reazioni di Capitol Hill (oggi il rapporto verrà presentato all’Armed services committee del Senato), è strategico per il nostro Paese, perché ci fornisce un vitale metro di paragone. Se gli Usa non sono pronti, possiamo esserlo noi? Certo, Roma non ha le responsabilità e le ambizioni globali di Washington, ma ne condividiamo, quantomeno, nemici e guerre (l’articolo 5 della Nato funziona in due direzioni). Quindi, nel decennio in cui ci siamo focalizzati sulla chimera 2% (chimera solo per noi e pochi altri Alleati, per altro), il mondo è andato avanti, e le minacce sono aumentate in modo allarmante: gli Usa dedicano il 3% al settore, e comunque non basta. Che ci piaccia o no, ci troviamo in una Seconda guerra fredda (poi possiamo chiamarla “Pace fredda”, ma la sostanza non cambia) e dobbiamo, proprio come lo Zio Sam, tornare ai livelli di spesa di allora – qualcosa che faccia rima con 5%, a salire.
Il rapporto ci tocca poi direttamente, come italiani ed europei, perché dà la misura del peso specifico che, giustamente, gli statunitensi attribuiscono ai Paesi Ue. La Commissione definisce la Nato “indispensabile” per esercitare la deterrenza contro la Russia, ma l’Alleanza Atlantica è liquidata in mezza pagina, all’interno della sezione “U.S. Alliances and Partnerships”, che di pagine ne dura poco più di una. Soprattutto, a pagina 13 si legge: “gli Stati Uniti devono mantenere il loro ruolo di leadership nell’Alleanza […] pur permettendo agli altri Paesi Nato di assumersi crescenti responsabilità di conduzione del conflitto, mentre gli Stati Uniti dedicano forze al comando indo-pacifico”. Il corsivo è un’aggiunta dell’autore, che non commenta oltre.
Il dubbio è che anche tornando a investire cifre assai più considerevoli di quelle attuali (per altro con grandi sacrifici) il peso specifico non cambierebbe: durante la Guerra fredda l’Europa spendeva sì percentuali significative, ma non poteva fare a meno degli Usa. Il paradosso è che l’Ue investirebbe abbastanza nella Difesa per esercitare la deterrenza contro la Russia (e per giocare un ruolo di primo piano, se non globale, quantomeno in Africa e Medio Oriente), ma investe male, in modo frammentato. Insomma, i soldi ci sono, ma vengono spesi senza efficacia.
In altre parole, se gli statunitensi non sono pronti, sarebbe ingenuo pensare di esserlo noi e, pertanto, dobbiamo investire di più. I Paesi europei, presi singolarmente, hanno un peso specifico trascurabile nella visione strategica Usa, e, anche investendo le stesse percentuali che la Commissione auspica per Washington, le cose non cambierebbero. Invece, gli Alleati Nato, presi collettivamente, sono indispensabili per gli Usa, e la cifra che i Membri dell’Ue investono nella Difesa sarebbe seconda solo a Washington e Pechino. Ognuno tragga le conclusioni che preferisce, ma questo sillogismo sui generis sembra parlare di Difesa Ue.
Il nuovo “asse del male”
“Il Paese è stato preparato per l’ultima volta per combattere una guerra di grandi proporzioni durante la Guerra fredda”, ma “oggi non è pronto”. Questo perché gli attuali avversari di Washington sono o più inclini alla guerra (Russia) o più vicini che mai in termini di capacità (Cina). Inoltre, la crescente collaborazione tra le potenze autocratiche (si aggiungono, in seconda linea, Iran e Corea del Nord, senza dimenticare altre dittature “satelliti” ed il terrorismo di matrice islamica) rende essenzialmente certo che queste si coordinino in caso di conflitto con gli Usa, o indirettamente o aprendo direttamente altri teatri. Si noti, che, anche nei suoi libri bianchi, l’ambizione di Washington non va oltre il combattere una guerra di grande proporzioni (i.e., contro un avversario) ed esercitare la deterrenza contro un altro avversario, non affrontare una guerra su due fronti.
Circa la Cina, la Commissione non minimizza affatto la minaccia. Mentre la National security strategy del presidente Joe Biden aveva identificato il ritmo del rafforzamento delle Forze Armate di Pechino come uguale a quelle di Washington, il rapporto definisce la velocità cinese come maggiore. Non solo una massa enorme, ma anche avanzamenti tecnologici che potrebbero rendere le Forze Armate cinesi “superiori” a quelle a stelle e strisce, tant’è che “non possiamo essere sicuri che le Forze Armate Usa avrebbero successo in un conflitto regionale contro la Cina”. Soluzioni specifiche a livello militare sono, in primis, aumentare le capacità underwater, identificate in sottomarini di classe Virginia, ma pure grandi droni subacquei (questo, comunque, a riprova del fatto che l’attenzione italiana verso l’underwater litoraneo è una nicchia che potrebbe vederci staccare il resto del mondo).
Parlando di Russia, la Commissione critica l’Nds per averla definita una minaccia “acuta”, parola con accezioni limitate in termini di durata – la questione, piuttosto, è “cronica”. La raccomandazione, nel breve termine, è aumentare il supporto a Kyiv (quantità, qualità e libertà di uso), nel medio termine aumentare la presenza Usa in Europa orientale e, nel lungo, che “l’Europa assuma un ruolo più ampio nel provvedere alla sua stessa difesa”
Un ecosistema della Difesa problematico
Lo si è ripetuto spesso a proposito della Difesa europea: non c’è Difesa senza un’adeguata industria del settore. E il punto è, largamente, questo: “gli Stati Uniti hanno una base industriale della Difesa con troppe poche persone, troppe poche aziende, supporto finanziario in diminuzione ed instabile, e una capacità produttiva inadeguata per i bisogni delle Forze Armate, sia in tempo di pace che in tempo di guerra”, si legge. Il rapporto si concentra nello specifico sulla cantieristica, il cui stato è particolarmente preoccupante quando comparato con quella cinese. Non si può non citare un’altra sezione preoccupante: “wargame pubblici suggeriscono che, nel caso di un conflitto con la Cina, gli Stati Uniti esaurirebbero il grosso del loro inventario di munizionamento in appena tre-quattro settimane, con taluni tipi (i.e., missili anti-nave) che finirebbero dopo solo pochi giorni. Esaurite quelle, rimpiazzarle impiegherebbe anni”. Pertanto, gli ordini verso l’industria dovranno aumentare. Si parla di più munizioni, più infrastrutture di produzione e nuovi programmi, abbandonando programmi “legacy”. Si raccomanda pure di andare avanti col programma del caccia del futuro dell’Aviazione, che sta al momento attraversando turbolenze.
La sua responsabilità la ha pure il Pentagono, le cui procedure vengono definite “bizantine” e “avverse al rischio”. Dito puntato verso la poca libertà di ridiscutere e cancellare programmi e un processo troppo lento, spesso inadatto a lavorare con aziende diverse dai “soliti noti” della Difesa Usa. Sarà quindi necessario invertire la prassi attuale, seguendo i modelli virtuosi (Space force, Defense innovation unit, Replicator initiative) e le strategie delineate in termini di collaborazione più vigorosa coi privati e di ampliamento della base industriale. Menzione importante, per il nostro Paese e cantieristica, per il suggerimento rivolto alle misure “buy American”, che dovrebbero essere abbandonate per consentire agli Alleati di contribuire allo sforzo Usa e alle relative Forze Armate di ottenere il meglio presente sul mercato.
La Commissione, pur non indicando soglie minime di spesa o, in generale, soluzioni precise e dettagliate (per una ben specifica scelta, figlia del rispetto istituzionale dovuto al Congresso), crede che, come sostenuto dai falchi, in particolare dal senatore Robert Wicker, sarà essenziale alzare sensibilmente la spesa militare. Questo significa passare immediatamente un nuovo budget suppletivo (in aggiunta a quello ora in discussione) ed eliminare il tetto dell’1% all’aumento annuale del budget del Pentagono (imposto dai repubblicani). Inoltre, implicherà misure impopolari, come l’aumento delle tasse e/o la riduzione dei programmi di previdenza sociale (Social security e Medicare).
Il fronte interno
Il nocciolo della questione, però, non sono né gli avversari sempre più preoccupanti né una base industriale non all’altezza di questi ultimi. “L’opinione pubblica è largamente ignara dei pericoli che gli Stati Uniti fronteggiano o dei costi richiesti per prepararsi adeguatamente. […] Non sta prevedendo le interruzioni alla sua elettricità, acqua o accesso ai beni sui quali fa affidamento. Non ha internalizzato i costi nei quali gli Stati Uniti incorrerebbero se perdessero la loro posizione di superpotenza globale”. Ecco che diventa quindi naturale fare i conti con l’impossibilità di reclutare il personale desiderato e mobilitare un budget appropriato.
Questa problematica è esacerbata dalle disfunzioni partitiche, e condivisa dai partiti stessi: “gli Stati Uniti si stanno ancora mostrando incapaci di agire con l’urgenza richiesta, attraverso amministrazioni diverse e indipendentemente dal partito di governo”. Quindi, la Commissione sostiene che vi sia “il bisogno urgente di una ‘chiamata alle armi’ bipartitica affinché gli Stati Uniti possano intraprendere i grandi cambiamenti e i significativi investimenti adesso invece che aspettare il prossimo Pearl Harbor o 11 Settembre”.