Perché non considerare i detenuti come potenziali imprenditori? Limitarsi a chiedere cosa possa fare la società per i detenuti, senza interrogarsi sul contrario, è una forma sottile di discriminazione che li identifica come un problema anche quando potrebbero essere una potenziale soluzione. La versione di Stefano Monti
È di questi giorni la pubblicazione dell’annuale rapporto nel quale Antigone analizza le condizioni nelle carceri italiane. Una condizione che risulta chiara già dalla scelta del titolo di questa ventesima edizione del rapporto “Nodo alla gola”. Ci si riferisce, chiaramente, al numero di suicidi che tra il 2023 e i primi mesi del 2024 è stato più volte al centro dell’opinione pubblica. Ma si riferisce anche a tutte quelle potenziali condizioni che, di fatto, rendono il percorso riabilitativo meno edificante di quanto potrebbe essere.
Molti sono i dati del rapporto che meritano una riflessione, alcuni riferiti a condizioni quantomeno delicate, altri invece a percorsi positivi, come i dati sull’istruzione, anche universitaria, che raccoglie un numero crescente di detenuti iscritti. Dato, quest’ultimo, che va accolto con grande interesse ma che, come tutti gli altri, va inquadrato in una visione d’insieme in cui è necessario adottare una cautela anche maggiore rispetto a quella richiesta in merito ad altri ambiti della vita democratica.
Il tema della detenzione, infatti, è molto delicato non solo perché tratta della vita delle persone che hanno in qualche modo violato il patto sociale, ma anche perché, in virtù di tale violazione, quelle persone vivono in condizioni differenti rispetto a quanto avviene per il resto della società.
È chiaro dunque che, rispetto al dato sull’istruzione, per molti risulterà molto più importante quello relativo alle condizioni di sovraffollamento. Così come ad altre sensibilità potrebbero risultare iniqui i percorsi di istruzione gratuita e di inserimento lavorativo per i detenuti. Molte persone, ancora, potranno essere più interessate alle dimensioni psicologiche dei detenuti, mentre per altre qualsivoglia riflessione che non sia volta a garantire il mantenimento di condizioni dignitose all’interno delle carceri potrebbe risultare un vezzo più utile a chi lo propone che a chi potrebbe riceverlo.
Pur con tutta la cautela ed il rispetto che è doveroso assumere nei confronti di questo tema, soprattutto quando, come in questo caso, è un non addetto ai lavori ad affrontarlo, è pur vero che delegare l’intero dibattito ai tecnici, così come per qualsiasi altra tematica della vita democratica, non solo desensibilizza l’opinione pubblica, ma dall’altro rischia di asfissiare il dibattito riducendolo alla reiterazione tipica dei “circoli di pensiero”, in cui si ribadiscono sempre le stesse problematiche, si propongono sempre le medesime soluzioni, e al termine del dibattito ci si saluta cordialmente in attesa dell’ennesima occasione di confronto in cui verranno ribadite simili argomentazioni.
Pur muovendo dunque il ragionamento in punta di piedi, e pur confermando quanto sia essenziale che la riflessione si concentri su tematiche che seguano le medesime priorità in qualche modo “maslowniane”, ci sono degli elementi che raramente compaiono nel dibattito pubblico legato al tema nel nostro Paese e che invece potrebbero essere di interesse.
Il primo è legato alla dimensione del talento. Il termine può essere un po’ naif ma, al di là degli aspetti lessicali, sotto il profilo prettamente statistico è quantomeno improbabile che in una popolazione di circa 62mila persone (che rispondono più o meno agli abitanti di una città di medie dimensioni) non esistano persone dotate di capacità cognitive o manuali in grado di rappresentare, per l’intera collettività, un valore aggiunto. Malgrado i trascorsi che le hanno condotte in una condizione di detenzione, è comunque da considerare che un talento non espresso rappresenta un costo per la società civile.
Chiaramente, la questione delle capacità va affrontata tenendo conto del singolo caso, delle condizioni che ne hanno abilitato o stimolato la violazione del patto sociale, e anche del tipo di violazione condotta. In una logica neutra, infatti, va pur sempre ricordato che ci sono state epoche storiche, neanche troppo distanti, in cui venivano comunemente accettati comportamenti che oggi la nostra società ritiene esecrabili, e che quindi nel definire un determinato crimine si debbano considerare anche le possibili modifiche culturali (intese nell’ampio senso di espressione di una data società) che potrebbero verificarsi nel corso dei prossimi decenni.
Un esempio tra tutti è il caso delle sostanze stupefacenti o psicotrope: si tratta di un’ampia gamma di reati ma che riguardano un tema che, almeno in parte, è sempre più oggetto di riflessioni. Non è certo un esempio preso a caso: secondo l’Istat, i detenuti per tipologia di reato “stupefacenti e sostanze psicotrope” rappresentavano, nel 2023, la categoria più numerosa, con un totale di 20.566 persone tra uomini e donne condannate per tale tipologia di reato.
Se vivessimo in una società in cui la produzione, la distribuzione e la vendita di alcune sostanze stupefacenti fosse regolarizzata, una parte, anche minima, di queste 20mila persone potrebbe non appartenere alla categoria “detenuti”, ma alla categoria “imprenditori”, “agricoltori”, “distributori”, “commercianti”.
Sia chiaro, ciò non significa voler mettere in discussione la loro attuale detenzione: il loro agire è avvenuto in un momento in cui la sensibilità sociale ha stabilito che tali azioni fossero da considerare criminali, e alla violazione delle leggi è lecito far corrispondare un’adeguata reazione del potere coercitivo dello Stato.
Ciò che si mette in discussione è piuttosto il fatto che l’attuale sensibilità sociale debba essere percepita come “perenne”, errore commesso con una certa frequenza, malgrado la capacità del diritto di rispondere ai dettami sociali sia una delle basi dell’intero sistema giuridico. Basti pensare al solo reato d’adulterio: non più di 60 anni fa, una donna adultera era punibile con un anno di prigione in caso di adulterio e con due anni di prigione in caso di relazione adulterina (ai sensi dell’articolo 559 del Codice penale dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con le sentenze 19 dicembre 1968, n. 126 e 3 dicembre 1969, n. 147. Fonte Brocardi).
Tenendo conto di queste circostanze, pertanto, e ferme restando le condizioni dei singoli, val forse la pena provare un cambio di prospettiva nel rapporto tra società civile e detenuti. Ribaltare, cioè, l’attuale logica “assistenziale” (cosa può fare la società per i detenuti) e adottare una più coerente logica “opportunistica” (cosa possono fare i detenuti per la società).
Malgrado possa apparire come radicale, questa prospettiva non fa altro che estendere ai detenuti le stesse condizioni che si adottano per il resto della società civile: è quanto accade con gli studenti (cosa può fare uno studente universitario per creare valore aggiunto al corso, al docente, all’ateneo o alla società nel suo complesso); è quanto accade con i dipendenti (come può un dipendente incrementare la produttività generale dell’impresa); è quanto viene richiesto agli imprenditori (come può un investitore migliorare il proprio impatto sul territorio e sulla vita delle persone). Come può, dunque, una persona, che ha infranto il patto sociale, migliorare la condizione dell’intera collettività?
A questa domanda sono state fornite tantissime risposte: l’istruzione, il reinserimento lavorativo, il volontariato, ecc. Raramente, invece, tali soggetti vengono considerati come potenziali imprenditori: rari sono i programmi di start up, di leadership, o capacità di sviluppo tecnologico, economico e finanziario.
Eppure si tratta di persone che, per la propria condizione, possono aver sviluppato sensibilità differenti, aver intercettato categorie inedite di bisogni cui voler fornire una risposta, aver identificato delle esigenze che, nelle normali condizioni di vita, si tende a non percepire.
Non si sta di certo affermando che tra i detenuti delle nostre carceri potrebbe esserci il nuovo Elon Musk. Si sta affermando piuttosto che non si può escludere del tutto tale possibilità. E che per quanto ad oggi esistano percorsi volti alla professionalizzazione e all’istruzione, tali percorsi demandano alla possibilità dei singoli invece la possibilità di un’azione imprenditoriale.
Del resto, perché un detenuto deve necessariamente essere un pasticciere, un sarto, o un artigiano? Non può essere anche un imprenditore? Se esistono imprenditori che vanno in carcere, perché dovrebbe essere così impossibile immaginare carcerati che diventano imprenditori?
Ci sono dei casi, certo. Ma i casi singoli non rappresentano un impegno “esterno” quanto piuttosto una capacità intrinseca che è sorta in condizioni adeguate. Un programma di start up per detenuti, con partecipanti selezionati sulla base sia delle loro capacità sia del tipo di reato, potrebbe semplicemente estendere il ventaglio di possibilità che vengono offerte ai detenuti per “creare valore aggiunto” alla società e alla loro stessa vita.
Perché limitarsi a chiedere cosa possa fare la società per i detenuti e non interrogarsi sul contrario è una forma sottile di discriminazione che pone il detenuto in una condizione di perenne bisogno, lo identifica come un “problema” anche quando, al di là della giusta pena che è giusto paghi, potrebbe essere una potenziale soluzione.