Nel 2019 il Copasir invitava il governo a escludere Huawei e Zte dalla rete, sottolineando che le ragioni economiche non possono prevalere su quelle che attengono alla sicurezza nazionale. Da allora i vari governi hanno fatto poco o niente. Meglio agire, prima che sia troppo tardi
È di oggi la notizia che la Germania ha deciso la rimozione dei componenti prodotti dalle aziende cinesi Huawei e Zte dalle proprie reti mobili 5G. Una decisione che corrisponde a chiare ragioni di sicurezza nazionale, dovute alla natura delle aziende cinesi, alla legislazione nazionale cinese alla quale esse sono sottoposte e ai conseguenti rischi che ne derivano per la sicurezza nazionale e delle stesse reti. Del resto, provvedimenti analoghi sono stati assunti negli anni scorsi, oltre che dagli Stati Uniti, anche dalla Francia e la stessa Commissione europea ha evidenziato tali rischi e ha varato misure per mitigarli.
E in Italia? In Italia è dal 2019 che il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha approvato alla unanimità una relazione (di cui l’autore di questo articolo è stato relatore, ndr) con la quale riteneva “fondate le preoccupazioni circa l’ingresso delle aziende cinesi nelle attività di installazione, configurazione e mantenimento delle infrastrutture delle reti 5G”. Conseguentemente, il Comitato già allora invitava il governo e gli altri organi competenti a “valutare anche l’ipotesi, ove necessario per tutelare la sicurezza nazionale, di escludere le predette aziende (Huawei e Zte, ndr) dalla attività di fornitura di tecnologia per le reti 5G” e a considerare “molto seriamente” la possibilità di “limitare i rischi per le nostre infrastrutture di rete, anche attraverso provvedimenti nei confronti di operatori i cui legami, più o meno indiretti, con gli organi di governo del loro Paese (la Cina, ndr) appaiono evidenti”.
Che cosa è successo nel nostro Paese dopo tale allarmata relazione? Che cosa hanno fatto i vari governi e le diverse maggioranze parlamentari che nel frattempo, dal 2019 a oggi, si sono succeduti? Niente, poco o niente, spiace dirlo.
L’ipotesi raccomandata di una esclusione delle aziende cinesi dalle nostre infrastrutture di rete non è mai stata realmente presa in considerazione, benché fosse stato documentato che essa era possibile e sostenibile, sia giuridicamente che economicamente. Sono state invece prese alcune misure parziali, è vero. Sono stati rafforzati alcuni strumenti e alcune procedure, di comunicazione, controllo e salvaguardia. Ma tutti sanno che tali misure, tali strumenti e tali procedure, in un campo complesso e delicato come quello delle tecnologie digitali, telematiche, informatiche, cibernetiche, di comunicazione, sono insufficienti a eliminare i rischi e le minacce.
E i rischi per la sicurezza nazionale sono sempre inaccettabili, soprattutto quando le minacce sono sempre più invasive, penetranti e pericolose.
È giunto quindi il momento, magari proprio alla vigilia del programmato viaggio in Cina del nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che governo e Parlamento facciano chiarezza, assumano una posizione univoca e difendano l’interesse nazionale. Gli altri interessi in ballo, economici, finanziari, commerciali, diplomatici sono enormi, lo sappiamo, coinvolgono nostre aziende, università, istituzioni, enti, cittadini. Ma, per dirla ancora con le parole della relazione del Copasir del 2019, “le pur significative esigenze commerciali e di mercato, che assumono un ruolo fondamentale in una economia aperta, non possono prevalere su quelle che attengono alla sicurezza nazionale”.
Con la Cina siamo già usciti, giustamente, grazie al governo Meloni, dalla Via della Seta, non lasciamo ora ancora aperte le porte delle nostre infrastrutture di rete e le finestre delle nostre case, facciamo anche noi che a uscire stavolta siano, finalmente, le aziende cinesi. Prima che sia troppo tardi.