Lo Stato etichetta indiscriminatamente tutti come profittatori colpevoli. Viene in mente l’amara battuta di Churchill per cui, anche nell’Inghilterra liberale dei suoi tempi, c’era chi vedeva l’impresa come una mucca da mungere, mentre pochissimi la vedevano come un robusto cavallo che traina un carro molto pesante. Il commento di Antonio Picasso, direttore generale di Competere
Il payback sui dispositivi medici rischia creare una crisi irreversibile tra le imprese fornitrici ai sistemi sanitari regionali. Uno studio Nomisma parla di rischio fallimento per oltre 1.400 aziende, in prevalenza Pmi, e licenziamento 190 mila addetti ai lavori. Il meccanismo, che ha avuto il recentissimo placet della Corte costituzionale, costringe le aziende che commerciano device medici a restituire una parte delle spese eccedenti i budget regionali. Il refunding si innesca qualora una regione superi il proprio budget di spesa.
In tal caso, la differenza deve essere restituita dalle aziende che hanno fornito i dispositivi. La Consulta afferma che il payback “pone a carico delle imprese un contributo solidaristico per l’arco temporale 2015-2018, correlabile a ragioni di utilità sociale, al fine di assicurare la dotazione di dispositivi medici necessaria alla tutela della salute in una situazione economico-finanziaria di grave difficoltà”. Questo invito alla creazione di un “fondo sociale”, parole della Consulta, da parte dell’attore privato, che dev’essere a fianco dell’ente pubblico, nasconde una forzatura a danne delle imprese che soltanto in Italia viene presa come cosa normale.
Il costo degli “errori” di una regione, l’Ente pubblico appunto, ricade sul privato, che, vessato da una tassa andata improvvisamente a gravare sui propri bilanci, potrebbe trovarsi costretto a interrompere il servizio. All’atto pratico, si teme uno shortage nella fornitura agli ospedali di dispositivi salvavita, come stent, valvole cardiache e quant’altro. Secondo la Federazione italiana fornitori ospedalieri (Fifo – Confcommercio), tra il 2015 e il 2020, la spesa di questi e altri device medici è cresciuta del 18,3%, passando da 5,8 miliardi di euro nel 2015 a 6,8 nel 2020. Nell’ultimo anno in esame, con il Covid, i costi sono saliti del 7,3%, pari a oltre 460 milioni di euro.
C’è chi potrebbe dire che, in una situazione di emergenza, è dovere di tutti compiere un sacrificio per sistemare le cose e poi tornare al libero mercato: motore dello sviluppo socioeconomico, che genera profitto, ma anche lavoro e benessere diffuso. È vero, promuovere la concorrenza non vuol dire restare sordi ai problemi collettivi. Si potrebbe pensare di fare come ad Atene: mettiamo in stand by la democrazia per un po’, in questo caso il libero mercato, e ci affidiamo a un amministratore straordinario. Sicuro che tutto tornerà come prima.
Tuttavia, la realtà ci ricorda che le regioni non dispongono delle risorse necessarie né per saldare i debiti con le imprese fornitrici, né per garantire un servizio sanitario adeguato. Soprattutto alla luce di una popolazione in crescente invecchiamento, che quindi richiede più cure, e di una medicina sempre più avanzata (ma più cara). La longevità di cui stiamo godendo implica investimenti e innovazione, che solo le imprese, che agiscono in un mercato in piena concorrenza, possono fornire.
Invece di riconoscere questi contributi, lo Stato sceglie di imporre un’ulteriore tassa a chi ha incassato (non necessariamente guadagnato) dalla sanità pubblica, trasformando il legittimo profitto in un furto e così confermando che l’idea di vivere all’insegna dei principi del libero mercato e della libera iniziativa, fondamentali per il benessere e lo sviluppo, sono soltanto dei paraventi. In un clima di anti-imprese, si è spesso parlato degli imprenditori come di “prenditori”, una sorta di ricchi parassiti che continuano ad arricchirsi a spese del contribuente. Questo schema, che mette alla gogna un protagonista del nostro percorso di sviluppo economico, ora ha come cardine lo Stato, che percepisce i cittadini come sudditi e che è convinto che imprese, imprenditori e manager abbiano sistematicamente abusato della cosa pubblica, contribuendo alla sua malagestione.
Con il payback, lo Stato etichetta indiscriminatamente tutti come profittatori colpevoli. Viene in mente l’amara battuta di Churchill per cui, anche nell’Inghilterra liberale dei suoi tempi, c’era chi vedeva l’impresa “come una mucca da mungere, pochissimi la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che traina un carro molto pesante”. Lo scenario presentato da Nomisma sembra più un bollettino di guerra. Con le Pmi che contano il grosso dei caduti. Le grandi multinazionali del settore medico, pur contestando la norma, possono assorbire le perdite grazie alle loro economie di scala globali.
Ridurranno vendite, costi e investimenti, ma alzeranno i prezzi, e segnaleranno l’Italia come un mercato a rischio, spostando il loro interesse altrove. Le piccole e medie imprese italiane, invece, pilastri dell’economia e dell’innovazione del Paese, non godono degli stessi vantaggi e si trovano di fronte al rischio di fallimento. Addio a investimenti, posti di lavoro e innovazione. Le regioni, infatti, continueranno a non bilanciare i loro conti e saranno costrette ad acquistare dispositivi medici dalle multinazionali a prezzi esorbitanti, impoverendo ulteriormente un Paese che, nel frattempo, avrà perso la capacità di fare innovazione e la voglia di fare impresa.