Il 25 giugno la Corte suprema israeliana ha deciso all’unanimità l’arruolamento degli studenti ultraortodossi delle yeshiva, le scuole religiose, eliminando quindi l’esenzione dal servizio militare di cui beneficiavano. La decisione arriva in un contesto di forti tensioni non solo esterne, dovute alla guerra a Gaza, ma anche interne. E riaccende il duro dibattito sul futuro di Israele: Stato laico o teocratico?
Era il giugno del 2015, quando il Presidente Reuven Rivlin, in uno storico discorso pronunciato durante la conferenza di Herzliha, suddivise la società israeliana in quattro tribù: ebrei laici, religiosi, ultraortodossi e arabi. Quattro gruppi con una concezione totalmente diversa dello Stato e dei suoi valori fondanti, i quali oggi, nel clima di forte tensione che caratterizza Israele, appaiono sempre più in contrasto e lontani da quelli che diedero vita all’unica democrazia del Medio Oriente.
Principi e valori fondanti che per anni sono stati il punto di forza del Paese. Pur da sempre fortemente convinto che la creazione dello Stato di Israele fosse la ripresa di una storia millenaria momentaneamente interrotta con la diaspora, David Ben Gurion, padre fondatore di Israele, al momento della nascita dello Stato, attraverso compromessi con il rabbinato, era riuscito infatti ad evitare, al suo interno, la spaccatura in due tra i sionisti laici e gli ultraortodossi, ma soprattutto, l’imposizione della legge ebraica, l’Halakhah.
Ben Gurion aveva un’idea chiara di quello che avrebbe dovuto essere Israele, e nacque così quello Stato, figlio del sionismo herzliano totalmente europeo, in cui gli askenaziti, nucleo fondante che dal ’48 in poi ha rappresentato l’élite del Paese, costituivano quasi la totalità della popolazione, mentre gli ultrareligiosi erano una piccolissima minoranza. Questi ultimi ottennero subito l’esenzione dal servizio militare, per dedicarsi allo studio della Torah. E oggi è proprio questo uno dei “pomi della discordia” in Israele.
La storica decisione della Corte Suprema di porre fine all’esenzione dalla leva per gli ultraortodossi è, infatti, il punto di partenza di una più grande questione, che Israele avrebbe dovuto prima o poi affrontare, forse nella totale complessità e non attraverso singoli temi, ovvero se definirsi uno stato laico in cui l’ebraismo è privilegiato oppure uno stato teocratico in cui la Torah diventi la legge suprema del Paese, dando seguito a quella famosa Legge fondamentale approvata nel 2018, in cui si afferma che “Israele è la patria del popolo ebraico”. Questa legge, diventata appunto una delle Basic Laws, leggi fondamentali, che, come una costituzione, guidano il sistema legale di Israele, fu fortemente sostenuta dai sefarditi e ultraortodossi, i quali oggi consapevoli del proprio peso demografico pretendono di cambiare volto ad uno Stato a cui praticamente non hanno contribuito a fondare.
È proprio l’aspetto demografico il punto cruciale della questione che rischia di portare all’affermazione della religione sulla politica, dal momento in cui assistiamo da decenni ad un crescente tasso di fertilità delle donne religiose israeliane rispetto a quelle laiche che hanno un tasso sì più alto rispetto alle donne di qualsiasi Paese occidentale, ma decisamente inferiore (quasi la metà) rispetto appunto a quelle ultraortodosse.
Ed è sotto questo aspetto che si gioca il futuro di Israele. Come avvenne con la riforma della giustizia, quando per mesi, fino ai fatti del 7 ottobre, centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza per protestare contro la volontà del governo Netanyahu di limitare il potere della Corte suprema, la quale oggi rappresenta un importante contrappeso proprio dell’esecutivo in carica e al contempo è considerata quasi come un “nemico” dagli ultraortodossi, in quanto l’unico organo in grado di porre un freno alle pretese di questi ultimi, ormai sempre più forti a causa, come anticipavo sopra, dei dati demografici a loro favore.
E sul ruolo della Corte ritorniamo, dunque, analizzandone la sentenza emessa la scorsa settimana. Da tempo, infatti, i giudici di quella che rappresenta il vertice del sistema giudiziario israeliano si sono pronunciati negativamente sulla possibilità di una norma, chiesta da tempo dai partiti religiosi, in grado di esentare una volta per tutte gli haredim dal servizio militare obbligatorio. E con la coraggiosa decisione del 25 giugno, la Corte, affermando che in un periodo in cui molti soldati sacrificano la loro vita per proteggere Israele, “la discriminazione riguardante la cosa più preziosa di tutte – la vita stessa – è della peggior specie”, ha imposto definitivamente sia l’arruolamento degli ultraortodossi sia l’eliminazione dei finanziamenti alle yeshivot (le istituzioni in cui si studiano i testi religiosi, principalmente Talmud e Torah e che questo governo finanzia con cifre record) nel caso in cui i loro studenti non si dovessero arruolare. Decisione importante, che ci si aspettava, considerato il periodo storico in cui vive Israele, dove la guerra è tornata ad essere un pensiero costante e quotidiano, non solo a Gaza, ma anche sul fronte nord con il Libano e in prospettiva con l’eterno nemico iraniano. Sentenza che tuttavia non era scontata, in quanto costituisce una presa di posizione che rischia di avere serie ripercussioni sul conflitto in corso a Gaza e sul governo Netanyahu, ma che soprattutto apre una questione cruciale per il futuro di Israele.
Infatti, la lettura di questa sentenza deve andare oltre e non limitarsi a circoscriverla al tema della leva militare. Sarebbe ingenuo pensare questo. È necessario, infatti, scavare in profondità per capire le cause strutturali che stanno portando da tempo a questo scontro tra le tribù, derivato da visioni differenti dello Stato di Israele, e comprendere che questa decisione può anche essere vista come la risposta della componente secolare e laica israeliana, incarnata dalla Corte suprema, che si batte per impedire la trasformazione dello Stato in senso religioso e autoritario, contrario appunto a quei principi fondatori di Israele.
Ma questa decisione potrebbe avere un impatto anche sul governo Netanyahu, in quanto questo si basa sull’alleanza con i due partiti ultraortodossi (Shas ed Ebraismo della Torah Unito), la cui uscita dall’esecutivo farebbe crollare la coalizione. Ipotesi che tuttavia al tempo stesso appare poco probabile in quanto mai nessun altro governo nei 76 anni di Israele è stato così favorevole agli interessi degli haredim, e soprattutto perché un’uscita di scena dal governo porterebbe a nuove elezioni che difficilmente riporterebbero questi partiti al potere.
Questa sentenza della Corte suprema ha, dunque, si una portata storica, ma tuttavia non definitiva. Perché se momentaneamente ribadisce un elemento distintivo e identitario dello stato israeliano presente sin dalla sua fondazione, ossia l’ampia partecipazione di “civili” alla difesa militare del paese, ove (quasi) tutti gli israeliani, uomini e donne sono coscritti al compimento del diciottesimo anno di età per un periodo impensabile in qualsiasi altra parte del mondo, ossia 24 mesi per le donne e 32 per gli uomini, dovrà in un futuro (neanche troppo lontano) comunque affrontare la realtà che abbiamo descritto sopra, ossia l’esponente crescita demografica degli ultraortodossi e, di conseguenza, il rischio che questi ultimi, consapevoli dell’aumento del proprio peso e della propria forza, possano rimettere in discussione i valori fondanti di Israele, tra cui, ma non solo, il servizio di leva obbligatorio.
Tutto ciò porta ad importanti riflessioni e a domande chiare e al tempo stesso inquietanti per il futuro di Israele. Resisterà, infatti, grazie magari ad altri interventi della Corte suprema, l’identità storica ed in parte laica che ha fatto grande Israele o prevarranno le imposizioni delle comunità ortodosse diffidenti e reticenti verso l’establishment nazional-sionista? Continuerà Israele ad avere uno degli eserciti migliori al mondo, anche grazie al sistema dei riservisti e della leva obbligatoria, considerati da decenni componente essenziale della società israeliana o in futuro tornerà l’esenzione per quella parte della popolazione del Paese che entro la metà del secolo costituirà un terzo degli abitanti? Costituirà questo ultimo aspetto un problema reale per la sicurezza di Israele, dal momento in cui il modello difensivo del Paese si basa, come detto sopra, in gran parte sulla leva militare al fine di poter mantenere un esercito in grado di fungere da deterrente nei confronti dei tanti nemici che circondano Israele e che hanno come obiettivo la sua distruzione? Riuscirà la Corte suprema a resistere ai tentativi di questo governo di indebolirla e di minarne l’autonomia? Le risposte le scopriremo nel tempo, ma la sentenza del 25 giugno è la dimostrazione dell’importanza di avere una Corte indipendente in grado di bilanciare i poteri dello Stato e salvaguardare la democrazia, l’uguaglianza e i valori fondanti di Israele.